Il ricordo di don Giacinto attraverso due interessanti contributi: uno di Rosa Petruzzelli, “Ricordando don Giacinto” e l’altro della prof.ssa Cosima Cuppone, “Buon giorno parroco” entrambi pubblicati dalla rivista “Nuovi Orientamenti” (Anno XXXIV n. 152, Ottobre 2012).
“Ricordando don Giacinto” – Era bello la mattina incontrarlo dopo la Messa
Questa estate un po’ bizzarra ci ha portato via due persone indimenticabili: Fulvia e don Giacinto. Due persone che hanno voluto condividere insieme gli ultimi momenti della loro vita.
Io ho sempre conosciuto don Giacinto, ma non ho mai avuto il coraggio di parlargli e di chiedergli consigli, se non in un momento particolare della mia vita. Ricordo che fu proprio Fulvia, che da sempre conosceva i segreti miei più cari, a propormi di incontrarlo: è stato allora che ho scoperto don Giacinto come persona diversa da come sembrava, semplice e paterna.
Io sono stata sempre religiosa e legata agli insegnamenti democratici del Vangelo e spesso ne ho fatto tesoro anche nella mia professione di docente.
Ricordo un giorno in cui l’ho incontrato: si parlava della bellezza della Pentecoste di Manzoni e di quanto fosse difficile conciliare le diverse religioni; le scuole, ormai, sono diventate multietniche e si deve trovare l’armonia per poter accettare senza astio i diversi sentimenti religiosi. Don Giacinto è stato grande nel consigliarmi con tanta semplicità quello che dovevo fare.
Come erano belli i nostri incontri al mattino, fatti a volte di sguardi e di semplici saluti: erano per me una carica per tutta la giornata.
Diciamo la verità, don Giacinto negli ultimi tempi era molto cambiato e lo avevano notato tutti: sempre dopo la sua celebrazione eucaristica a parlare del più e del meno e magari a condividere un caffè con gli altri come se fosse uno di noi. Sì, uno di noi: io ricordo la sua presenza prima austera, quando di lui si diceva “Don Giacinto non vuole questo, non vuole quest’altro”. Invece aveva ragione; voleva essere per noi un padre che non solo con il sorriso deve dare degli insegnamenti, ma con la forza necessaria ed incisiva.
Era una felicità incontrarlo e discutere della quotidianità o magari di cose più importanti; spesso mi sono ritrovata a dirgli; “Devo venire a confessarmi”; e lui mi rispondeva candidamente: “Efinghe e mo ‘ cete ame fatte?’ (E fino ad ora che cosa abbiamo fatto?).. Io speravo che me lo dicesse perché la confessione non deve dividere con una grata, ma deve essere una apertura di cuori da ambo le parti.
In uno degli ultimi incontri mi ha rimproverata con un sorriso, perché non mi vedeva alla sua celebrazione delle ore 11,30; e io gli ho risposto: “Devo preparare il pranzo domenicale per i figli e i nipotini”. E anche in quel momento mi ha donato un grande insegnamento dicendomi: “La prossema volde fa dù maccarune scaldate” (La prossima volta fai due maccheroni scaldati). Ora considerando questa sua frase nel dialetto dei nostri padri, non posso non ammettere che aveva ragione, perché non è la forma a cui tanto teniamo che conta, ma il contenuto.
Ciao, don Giacinto.
Rosa Petruzzelli
“Buon giorno” parroco
Come è difficile dare forma, trovare le parole per esprimere nel linguaggio dei vivi quell’abisso dell’anima che forse solo il silenzio può cogliere ed evocare; tutte le parole sembrano inadatte, quasi profanatone, perché nessuna di esse si addice alla dimensione del silenzio che avvolge la persona che non è più fra noi.
Questa era l’atmosfera delle domeniche di agosto successive a quella in cui don Giacinto ci ha lasciati: un senso di vuoto, la percezione di smarrimento, di incredulità che pervadeva la chiesa dove tutto rimandava alla dolorosa presenza della sua assenza; diversa la messa rispetto agli ultimi mesi in cui, lui malato, ma vivo, noi lo sapevamo fra noi e mai abbandonavamo la speranza di rivederlo, a celebrare.
E pure, a riprendere coscienza della reale situazione, a ripensare a quello che lui ha rappresentato per tanti di noi, a fare veramente silenzio intorno a noi, forse si può cogliere la risonanza della sua parola, del suo messaggio sacerdotale: ritorna alla mente quel suo richiamo a cogliere l’essenziale, a rifiutare quanto di superstizione, di ritualità, di richiamo vuoto ad una tradizione permane ancora in tante forme di religiosità.
Immancabile, nell’esercizio della sua funzione sacerdotale, l’invito a coltivare le nostre migliori facoltà: l’intelligenza, la ragione, la capacità del discernimento, di scegliere, di perseverare nella ricerca, con il riferimento privilegiato alla dimensione della interiorità.
Viva l’attenzione alle encicliche sociali della Chiesa che lo sospingeva ad un impegno caritativo discreto, rispettoso della dignità della persona bisognosa d’aiuto, e l’invito a tutti e in special modo ai giovani di dare il loro contributo nella vita civile, sociale e politica. Non mancava spesso di ripetere un pensiero di don Milani, a lui molto caro (“Occorre fare strada ai poveri senza farsi strada”), accanto a quello “I care” (Mi sta a cuore), per invogliare tutti a farsi carico dei problemi dell’altro.
Amava spesso richiamare quello che forse era il suo santo preferito, S. Agostino, con quel monito che risuona come un imperativo: “Noli foras exire, in interiore homine habitat ventai’ (Non uscire al di fuori di te, nell’interiorità dell’uomo abita la verità). E come non pensare a Socrate, al suo “Conosci te stesso”, alla migliore definizione della condizione umana che sa di non sapere e con pazienza, umiltà, persevera nella ricerca, che sia ricerca di Dio, o di giustizia, o di verità o di senso?
Il suo desiderio intellettuale e mistico di Dio lo rendeva particolarmente sollecito in alcuni momenti della formazione cristiana: lo ricordo parlare dei bambini che dovevano fare la prima comunione, del candore con cui dovevano ricevere Gesù, (lo stesso candore che, sfinito dalla sofferenza fisica, ma non fiaccato nelle capacità mentali, gli faceva dire, guardando il crocifisso della sua stanza di ospedale: “Durante il giorno parlo solo con lui”.
Quel suo desiderio di Dio cercava di trasfonderlo nei parrocchiani nelle varie situazioni del suo ministero sacerdotale (omelie, confessioni, incontri di catechesi), o quando, in occasione delle festività liturgiche, soleva affidare loro dei pensieri tramite semplici foglietti: ricordo, in particolare, quel foglietto verde che invitava ad “andare oltre”, che non voleva solo significare un aprirsi all’infinito, ma anche un non limitarsi alle vicende dolorose o liete del vivere quotidiano, per intravedere ciò che vi è al di là dell’orizzonte.
Anche qui i riferimenti ai classici non mancano. Penso a quel bellissimo sonetto di Giacomo Leopardi, l’Infinito, dove una siepe, che “esclude il guardo dall’ultimo orizzonte”, non gli impedisce però “di fingere nel pensiero interminati spazi e sovrumani silenzi e profondissima quiete”; penso a Eugenio Montale, alla sua volontà di “vivere con dignità, perché “tutte le immagini portano scritto: più in là”.
Un altro suo pensiero recitava: “Un giorno la paura bussò, andò ad aprire la fede”.
Caro don Giacinto, ora si tratta, raccolta ognuno la sua porzione di fede, di superare la tristezza che la tua dipartita ci ha lasciato, di riascoltare i messaggi che ognuno di noi custodisce dentro di sé, di non disperdere i principi fondamentali del tuo magistero e del tuo impegno pastorale. Facendo tesoro di quanto, in modo essenziale e con altrettanto rigore morale, raccomandavi ad ognuno per crescere come persona responsabile, prima che come cristiano.
E sempre ricorderemo la tua forte-fragile voce con cui intonavi, nel mese di maggio, le più belle canzoni alla Vergine: “E l’ora che pia”, “Mira il tuo popolo”, “Dell’aurora tu sorgi più bella”.
Alla messa mattutina delle 7,30.
“Buon giorno”, Parroco.
Cosima Cuppone
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