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17 agosto 1861

Prima seduta del Consiglio Comunale di Modugno, città del Regno d’Italia

Prima seduta del Consiglio Comunale di Modugno, città del Regno d’Italia. In seguito alla caduta dei Borboni ed al conseguimento dell’unità l’ordinamento del decurionato, che prevedeva annualmente un sindaco e due eletti come amministratori della città, viene sostituito dal Consiglio Comunale e dalla Giunta Municipale. Primo sindaco della Modugno post-unitaria è Antonio Longo, che viene eletto proprio nella seduta del 17 agosto 1861.

15 agosto 1816

Delibera dell’Università di Modugno

Con atto deliberativo l’Università di Modugno impegna i proprietari ad anticipare al Comune le somme necessarie all’acquisto del pane che «quasi continuamente manca». La situazione era stata determinata dalla pestilenza.

15 agosto 1594

Indulgenza per chi visiterà la Cappella di Santa Maria di Modugno dal 15 al 22 agosto

Una disposizione sinodale prevede «indulgenza plenaria» per chi visiterà la Cappella di Santa Maria di Modugno «fuori di detta terra» dal 15 al 22 agosto. Un privilegio ancora maggiore era riconosciuto alla Chiesa del Carmine, la cui visita permetteva non solo l’acquisizione di indulgenze ma anche la possibilità di «cavare un’anima dal Purgatorio»

Il nuovo abito della Madonna dell’Assunta

Riproponiamo una nota inviata alla redazione della nostra rivista (Lettere al direttore) pubblicata nel n. 143 (anno XXXII) del mese di luglio 2010, con la quale le «Consorelle della Pia Unione della Pietà» descrivono l’iter del «restauro conservativo» dell’abito della Madonna della Pietà, adorata nella Chiesa dell’Assunta di Modugno.

La bella avventura per il nuovo abito della Madonna dell’Assunta

L’effige della Madonna della Pietà, adorata nella Chiesa dell’Assunta di Modugno, ogni anno, in occasione del settenario e della processione del venerdì precedente la Domenica delle Palme, indossa un abito di seta nera ricamato in oro di grande pregio storico ed artistico, risalente alla fine dell’Ottocento.
La vestizione si completa con una corona in argento all’Interno della quale è inciso l’anno 1856. D’intesa con la Soprintendenza per i Beni Artistici e Storici della Puglia, nell’Aprile 2008 si definisce la necessità di un’opera di restauro conservativo dell’abito. Primo passo: provvedere alla sostituzione con un abito altrettanto degno. L’iniziativa nasce così. La ricerca punta subito sull’individuazione di artigiani della tessitura e del ricamo di antica e pregiata tradizione. L’attività, intensa e curiosa, porta a grandi risultati.

Dopo un viaggio di avventura e di fede, l’incontro giusto: Franz J. Ippoldt, sapiente tessitore austriaco, al quale si richiede la ritessitura dell’abito della Madonna di seta naturale nera, ed oro. Così egli scrive: «Penso che oggi sono probabilmente l’ultima manufattura auroserica europea ad avere in produzione questa tipologia di tessuto. Tanto che la tecnica della lamina d’oro/argento tessuto richiede una destrezza manuale ed un insieme di utensili particolari per la realizzazione su telaio a mano … Visionando e studiando queste produzioni, mi sono reso conto che ci vuole, oltre i macchinari perfetti, concentrazione costante, destrezza, sensibilità e forza fisica, aspetti che non vanno di pari passo con la vita di oggi. Eppure trovo nel realizzare questi pregiati manufatti una soddisfazione unica».

Franz J.Ippoldt rivela la sensibilità e la fede del fine artigiano che alla vista della Madonna si è spontaneamente inginocchiato; egli, poi, ha anche il merito di aver accreditato la nostra ricerca presso le suore benedettine dell’Isola San Giulio di Orta, in provincia di Novara, per la progettazione del disegno, la realizzazione del ricamo in oro e la confezione a mano del nuovo abito. Anche quello con le suore un incontro illuminato, sia per l’affetto con cui esse accolgono la richiesta e sia per la raffinata maestria di cui si ha immediata contezza.
La spiritualità benedettina del motto «Ora et labora» intreccia egregiamente l’attività spirituale con un laboratorio di restauro tessile specializzato che vanta anche pubblicazioni scientifiche. L’incontro con l’Abbazia Benedettina «Mater Ecclesiae» è una occasione privilegiata per le consorelle che si «imbarcano» nell’avventura.

La progettazione del nuovo disegno muove i primi passi da quello originale. Su proposta delle suore si innesta un nuovo seme. In una cornice di cuore rovesciato fiorisce la “Passiflora” che si eleva verso l’amore autentico per incitare l’uomo al bene. La Passiflora dal latino passionis flos (fiore della passione), fu associata da un missionario agostiniano, per la sua particolare conformazione, alla passione e alla crocifissione di Gesù. La proposta delle suore benedettine è affascinante e ricca di significato: la corolla di filamenti è la corona di spine; i cinque stami, le cinque ferite; i tre stigmi, i tre chiodi; i dieci petali, gli apostoli rimasti fedeli a Gesù.

Un viaggio su Internet favorisce l’incontro con Iolanda Ottavi, maestra di tombolo di Offida, dell’entroterra marchigiano, i cui lavori di merletto a tombolo si rifanno ad una tecnica che risale alla fine del Quattrocento. Alla tradizione del passato, la Ottavi ha aggiunto l’innovazione, ha inventato il «Merlettogioiello», armonia perfetta tra arte orafa e arte del merletto. È, la persona giusta per la realizzazione della trina metallica a fuselli con filo d’oro che incornicia il collo del nuovo abito e i bordi dei manicotti, il risultato è un’opera d’arte con tombolo, filo d’oro e grande maestria.

Dopo aver viaggiato sulle strade ferrate, in barca, su Internet, inizia un nuovo percorso con i cittadini modugnesi per la raccolta dei fondi. Anche questa una esperienza ricca ed intensa! I tantissimi oboli ricevuti segnano in maniera discreta ed indelebile il rapporto d’amore tra i cittadini e la Madonna.

A Franz J. Ippoldt, alle Monache Benedettine dell’Isola San Giulio, a Iolanda Ottavi, alle Consorelle della Pia Unione della Pietà, ai commercianti, ai professionisti, agli imprenditori, alla comunità dei modugnesi di Toronto, ai cittadini tutti, va il ringraziamento per la condivisione di un percorso di storia, di arte, di valori, e soprattutto di fede.

Le Consorelle della Pia Unione della Pietà

Lettere al direttore
Pubblicato sul n. 143, anno XXXII
Luglio 2010, p. 45

12 agosto 2012

Il 12 agosto 2012 ci lasciava don Giacinto Ardito, già parrocco della Chiesa di sant’Agostino

12 agosto 1587

Il governo di Napoli impone all’Università di Modugno di intestare tutte le sue entrate ad una sola persona

Dopo il riscatto della città dalla condizione feudale [dal 12 novembre 1581 al 4 novembre 1582] era stata infatti feudo del marchese Ansaldo Grimaldi che l’aveva acquistata per 40.000 ducati, il governo di Napoli impose all’Università di Modugno di intestare tutte le sue entrate ad una sola persona. Il provvedimento si rendeva necessario per ovviare alla perdita delle tasse che il governo centrale riscuoteva dai feudatari, l’intestazione di tutte le rendite ad una sola persona diveniva un «finto barone», faceva sì che nulla andasse perduto. Così tutte le entrate della città vengono intestate a tale Andrea Novo di Modugno, il quale, però, cedeva all’Università di Modugno quanto gli era stato intestato.

Ricordando don Giacinto

Il ricordo di don Giacinto attraverso due interessanti contributi: uno di Rosa Petruzzelli, “Ricordando don Giacinto” e l’altro della prof.ssa Cosima Cuppone, “Buon giorno parroco” entrambi pubblicati dalla rivista “Nuovi Orientamenti” (Anno XXXIV n. 152, Ottobre 2012).

“Ricordando don Giacinto” – Era bello la mattina incontrarlo dopo la Messa

Questa estate un po’ bizzarra ci ha portato via due persone indimenticabili: Fulvia e don Giacinto. Due persone che hanno voluto condividere insieme gli ultimi momenti della loro vita.
Io ho sempre conosciuto don Giacinto, ma non ho mai avuto il coraggio di parlargli e di chiedergli consigli, se non in un momento particolare della mia vita. Ricordo che fu proprio Fulvia, che da sempre conosceva i segreti miei più cari, a propormi di incontrarlo: è stato allora che ho scoperto don Giacinto come persona diversa da come sembrava, semplice e paterna.
Io sono stata sempre religiosa e legata agli insegnamenti democratici del Vangelo e spesso ne ho fatto tesoro anche nella mia professione di docente.
Ricordo un giorno in cui l’ho incontrato: si parlava della bellezza della Pentecoste di Manzoni e di quanto fosse difficile conciliare le diverse religioni; le scuole, ormai, sono diventate multietniche e si deve trovare l’armonia per poter accettare senza astio i diversi sentimenti religiosi. Don Giacinto è stato grande nel consigliarmi con tanta semplicità quello che dovevo fare.
Come erano belli i nostri incontri al mattino, fatti a volte di sguardi e di semplici saluti: erano per me una carica per tutta la giornata.
Diciamo la verità, don Giacinto negli ultimi tempi era molto cambiato e lo avevano notato tutti: sempre dopo la sua celebrazione eucaristica a parlare del più e del meno e magari a condividere un caffè con gli altri come se fosse uno di noi. Sì, uno di noi: io ricordo la sua presenza prima austera, quando di lui si diceva “Don Giacinto non vuole questo, non vuole quest’altro”. Invece aveva ragione; voleva essere per noi un padre che non solo con il sorriso deve dare degli insegnamenti, ma con la forza necessaria ed incisiva.
Era una felicità incontrarlo e discutere della quotidianità o magari di cose più importanti; spesso mi sono ritrovata a dirgli; “Devo venire a confessarmi”; e lui mi rispondeva candidamente: “Efinghe e mo ‘ cete ame fatte?’ (E fino ad ora che cosa abbiamo fatto?).. Io speravo che me lo dicesse perché la confessione non deve dividere con una grata, ma deve essere una apertura di cuori da ambo le parti.
In uno degli ultimi incontri mi ha rimproverata con un sorriso, perché non mi vedeva alla sua celebrazione delle ore 11,30; e io gli ho risposto: “Devo preparare il pranzo domenicale per i figli e i nipotini”. E anche in quel momento mi ha donato un grande insegnamento dicendomi: “La prossema volde fa dù maccarune scaldate” (La prossima volta fai due maccheroni scaldati). Ora considerando questa sua frase nel dialetto dei nostri padri, non posso non ammettere che aveva ragione, perché non è la forma a cui tanto teniamo che conta, ma il contenuto.
Ciao, don Giacinto.

Rosa Petruzzelli

“Buon giorno” parroco

Come è difficile dare forma, trovare le parole per esprimere nel linguaggio dei vivi quell’abisso dell’anima che forse solo il silenzio può cogliere ed evocare; tutte le parole sembrano inadatte, quasi profanatone, perché nessuna di esse si addice alla dimensione del silenzio che avvolge la persona che non è più fra noi.
Questa era l’atmosfera delle domeniche di agosto successive a quella in cui don Giacinto ci ha lasciati: un senso di vuoto, la percezione di smarrimento, di incredulità che pervadeva la chiesa dove tutto rimandava alla dolorosa presenza della sua assenza; diversa la messa rispetto agli ultimi mesi in cui, lui malato, ma vivo, noi lo sapevamo fra noi e mai abbandonavamo la speranza di rivederlo, a celebrare.
E pure, a riprendere coscienza della reale situazione, a ripensare a quello che lui ha rappresentato per tanti di noi, a fare veramente silenzio intorno a noi, forse si può cogliere la risonanza della sua parola, del suo messaggio sacerdotale: ritorna alla mente quel suo richiamo a cogliere l’essenziale, a rifiutare quanto di superstizione, di ritualità, di richiamo vuoto ad una tradizione permane ancora in tante forme di religiosità.
Immancabile, nell’esercizio della sua funzione sacerdotale, l’invito a coltivare le nostre migliori facoltà: l’intelligenza, la ragione, la capacità del discernimento, di scegliere, di perseverare nella ricerca, con il riferimento privilegiato alla dimensione della interiorità.
Viva l’attenzione alle encicliche sociali della Chiesa che lo sospingeva ad un impegno caritativo discreto, rispettoso della dignità della persona bisognosa d’aiuto, e l’invito a tutti e in special modo ai giovani di dare il loro contributo nella vita civile, sociale e politica. Non mancava spesso di ripetere un pensiero di don Milani, a lui molto caro (“Occorre fare strada ai poveri senza farsi strada”), accanto a quello “I care” (Mi sta a cuore), per invogliare tutti a farsi carico dei problemi dell’altro.
Amava spesso richiamare quello che forse era il suo santo preferito, S. Agostino, con quel monito che risuona come un imperativo: “Noli foras exire, in interiore homine habitat ventai’ (Non uscire al di fuori di te, nell’interiorità dell’uomo abita la verità). E come non pensare a Socrate, al suo “Conosci te stesso”, alla migliore definizione della condizione umana che sa di non sapere e con pazienza, umiltà, persevera nella ricerca, che sia ricerca di Dio, o di giustizia, o di verità o di senso?
Il suo desiderio intellettuale e mistico di Dio lo rendeva particolarmente sollecito in alcuni momenti della formazione cristiana: lo ricordo parlare dei bambini che dovevano fare la prima comunione, del candore con cui dovevano ricevere Gesù, (lo stesso candore che, sfinito dalla sofferenza fisica, ma non fiaccato nelle capacità mentali, gli faceva dire, guardando il crocifisso della sua stanza di ospedale: “Durante il giorno parlo solo con lui”.
Quel suo desiderio di Dio cercava di trasfonderlo nei parrocchiani nelle varie situazioni del suo ministero sacerdotale (omelie, confessioni, incontri di catechesi), o quando, in occasione delle festività liturgiche, soleva affidare loro dei pensieri tramite semplici foglietti: ricordo, in particolare, quel foglietto verde che invitava ad “andare oltre”, che non voleva solo significare un aprirsi all’infinito, ma anche un non limitarsi alle vicende dolorose o liete del vivere quotidiano, per intravedere ciò che vi è al di là dell’orizzonte.
Anche qui i riferimenti ai classici non mancano. Penso a quel bellissimo sonetto di Giacomo Leopardi, l’Infinito, dove una siepe, che “esclude il guardo dall’ultimo orizzonte”, non gli impedisce però “di fingere nel pensiero interminati spazi e sovrumani silenzi e profondissima quiete”; penso a Eugenio Montale, alla sua volontà di “vivere con dignità, perché “tutte le immagini portano scritto: più in là”.
Un altro suo pensiero recitava: “Un giorno la paura bussò, andò ad aprire la fede”.
Caro don Giacinto, ora si tratta, raccolta ognuno la sua porzione di fede, di superare la tristezza che la tua dipartita ci ha lasciato, di riascoltare i messaggi che ognuno di noi custodisce dentro di sé, di non disperdere i principi fondamentali del tuo magistero e del tuo impegno pastorale. Facendo tesoro di quanto, in modo essenziale e con altrettanto rigore morale, raccomandavi ad ognuno per crescere come persona responsabile, prima che come cristiano.
E sempre ricorderemo la tua forte-fragile voce con cui intonavi, nel mese di maggio, le più belle canzoni alla Vergine: “E l’ora che pia”, “Mira il tuo popolo”, “Dell’aurora tu sorgi più bella”.

Alla messa mattutina delle 7,30.
“Buon giorno”, Parroco.
Cosima Cuppone

Don Giacinto Ardito

Il dodici agosto di dodici anni fa ci lasciava don Giacinto Ardito. Per venerdì prossimo, 12 agosto 2022, la parrocchia “S. Agostino” lo ricorda con due momenti di preghiera, come indicati dalla locandina. Don Giacinto ha collaborato negli anni con la nostra rivista. Si riporta in calce l’intervista che la prof.ssa Cosima Cuppone gli fece a gennaio del 1989, poi pubblicata nel n. 1/2 di “Nuovi Orientamenti” dello stesso anno. L’intervista è particolarmente interessante, perché don Giacinto si sofferma sul suo magistero di parroco, esprimendo principi e considerazioni, che conservano ancora oggi tutta la loro attualità. Naturalmente, i due momenti di preghiera, come indicati dalla locandina della parrocchia, sono aperti a tutti coloro che volessero partecipare.

(R.M.)

Anno XI N.1,2 Gennaio, Aprile 1989
Cosima Cuppone

Il pianeta “parrocchia” nella società attuale

La parrocchia è oggi una realtà profondamente diversa dal passato. Appaiono lontani tempi in cui si assisteva quasi ad un naturale passaggio di molti giovani dalla «militanza cattolica» alla «militanza di in un partito di sinistra», particolarmente nel partito comunista. Nuova spiritualità, volontariato, incontri culturali, apertura al sociale e organizzazione del tempo libero spesso costituiscono oggi il terreno privilegiato dell’azione di una parrocchia, che così concretizza la “rivoluzione” del Concilio Vaticano II, delineata sin dagli anni Sessanta. Questa inchiesta, che ci permette di entrare nel vivo di una parrocchia, quella di Sant’Agostino, può forse offrire un quadro aggiornato del ruolo che la Chiesa esercita oggi in uno specifico territorio.

L’idea di compiere questa indagine è nata da una constatazione: l’attuale società offre a tutti — giovani e non — limitate o quasi nulle occasioni ed opportunità di incontro, di dialogo, di discussione. La crisi di tradizionali forme e movimenti di associazione, da quelle culturali o del tempo libero a quelle partitiche, è sotto gli occhi di tutti e di essa si è già fin troppo parlato perché anche in questa occasione si consumi altro tempo e inchiostro. La Chiesa appare, oggi, una delle poche istituzioni, se non l’unica, ancora in grado di offrire momenti e situazioni di incontro e di aggregazione, specie giovanili, che sollecitano la partecipazione e stimolano il contributo di cui l’individuo è capace, in vista di un inserimento responsabile nella vita di relazione. Una conferma in tal senso ci viene da Modugno, dove tutte le parrocchie manifestano per lo più una intensa vitalità.

La continuity magistero di due parroci

È facile, ad esempio, imbattersi il pomeriggio, la sera, o la domenica mattina in animati gruppi di giovani, bambini, ragazzi ed adulti, che si trattengono sul marciapiede di via Piave antistante alla Chiesa S. Agostino, oppure occupano (non c’è quasi mai traffico di automobili o altri autoveicoli) la stradella via Montepertica. Sono ragazzi e adulti in attesa di una riunione di catechesi, o che hanno da poco finito di partecipare ad una celebrazione eucaristica, o che semplicemente si son trovati lì per consumare un po’ di tempo o per assistere ad una proiezione cinematografica; insomma, viene da pensare alla parrocchia come ad un efficiente centro di aggregazione. Da qui l’interesse a conoscere meglio la vita e l’organizzazione di una parrocchia come quella di S. Agostino per comprendere le ragioni che permettono alla Chiesa di essere oggi più presente e più vitale in un territorio. Ebbene, parroco di «S. Agostino» è don Giacinto Ardito, con il quale è quanto mai opportuno avviare il discorso. L’appuntamento è per le 17 di un pomeriggio di gennaio: «Mi raccomando — aveva premurosamente esortato don Giacinto — non più tardi perché alle 18 ha inizio il catechismo». Non ci vuol molto per verificare la fondatezza della sua raccomandazione: risulta davvero difficile rimanere a parlare tranquilli, sia pure per una buona mezz’ora, perché continuamente qualcuno bussa alla porta e chiede di parlare con lui. Don Giacinto è succeduto a don Biagio Trentadue nella guida della parrocchia e la successione è avvenuta nel silenzio, senza annunci o festeggiamenti. Ed è questo aspetto, di discrezione e di voglia di essenzialità, che a me pare il tratto più qualificante dell’attività di don Giacinto, la cui cultura, il rigore morale, il coraggio intellettuale ho avuto occasione di apprezzare in varie situazioni.
E mi viene naturale stabilire una continuità di magistero fra questi due parroci, in particolare penso agli incontri con i genitori animati da don Biagio. Una espressione di don Biagio allora mi colpì: «È opportuno — egli disse a noi genitori — che i catechisti siano gli stessi genitori». A distanza di alcuni anni mi sembra che, come si dirà dopo, il desiderio di don Biagio sia divenuto oggi realtà grazie a don Giacinto.

La parrocchia il suo territorio, la sua popolazione

Il discorso parte subito con l’analisi della dimensione territoriale della parrocchia e in particolare col riferimento al nuovo Codice di Diritto Canonico che, esprimendo i nuovi principi del Concilio Vaticano II, all’art. 518 così recita: «Come regola generale, la parrocchia sia territoriale, tale cioè che comprenda tutti i fedeli di un determinato territorio».

Alla luce di tale affermazione, chiedo a don Giacinto quale sia la consistenza numerica e la composizione sociale della popolazione che ricade nell’ambito della parrocchia, quanta parte di essa frequenti le funzioni religiose e quanti siano invece i soggetti impegnati con assiduità nelle diverse attività della «Sant’Agostino».

Le persone facenti parte della parrocchia sono circa 10.000. Di queste circa 1.000 frequentano la parrocchia, intendendo per frequenza la sola partecipazione alla messa festiva. Tutte, invece, richiedono i Sacramenti. Tra i 1.000 frequentanti, circa 200 sono presenti nella parrocchia con un ruolo, un impegno, un lavoro. Di questi un numero superiore a 100 è costituito da giovani (dai 15 ai 20 anni), il resto da adulti (dai 30 ai 60 anni). Non si considerano impegnate le circa 800 unità costituite da bambini e ragazzi di scuola elementare e media che frequentano il catechismo. Quanto a composizione socio-economica la realtà della parrocchia è variegata: vi fa parte, infatti, una fascia del borgo vecchio, di modesta condizione; un gruppo, che rappresenta la componente prevalente, appartenente al ceto medio alto; un gruppo impiegatizio e un gruppo impegnato in nuove professioni che ha nei confronti della religione un atteggiamento «post-industriale».

Mi pare di capire, ascoltando i dati sulle persone impegnate nella parrocchia con un ruolo ed un impegno preciso, che da questa fascia sono esclusi gli anziani. Come mai questa scelta che per certi aspetti potrebbe costituire un limite?

In realtà, gli anziani non sono esclusi, ma, di fatto, non si sentono particolarmente motivati a certi impegni, e questo non mi sembra un limite, in quanto ben sappiamo quanto gli anziani preferiscano la frequenza a pratiche devozionali e di culto ai momenti di Catechesi oppure ad altre forme di religiosità. Più che di un limite, si tratta di una scelta.

Con una popolazione così diversa per religiosità e varia per età, come si fa a rendere omogeneo l’intervento della Chiesa?

In verità, la difficoltà è notevole e deriva dal fatto che molti riducono il fatto religioso al momento dei Sacramenti. La religiosità va oltre i Sacramenti, essa deve tradursi in un certo stile di vita, perciò il mio tentativo è di filtrare la richiesta religiosa di sempre riferendomi al discorso Conciliare e ai concetti di una reale vita cristiana da concretizzarsi nel quotidiano.

Culto, religiosità utilitaristica e nuova spiritualità

Il suo discorso incontra resistenze?

Incontra reazioni positive e negative. Quelle positive le registro alla messa domenicale delle 11,30 che vede la partecipazione dei giovani e, in genere, del ceto impiegatizio o di quello da me definito «di religiosità post-industriale». Le reazioni negative, invece, sono determinate dalla difficoltà nell’aderire ad un discorso nuovo che fa perno sulla interiorità e su una religiosità più autentica. È chiaro, ad ogni modo, che il discorso locale non può non rimandare ad un contesto socio-culturale di ordine mondiale, per cui le cause di una mentalità poco religiosa sono di natura generale e si collegano a visioni consumistiche e nichiliste della realtà, di cui sono portatrici tante ideologie.

Se si confrontano fra di loro i 10.000 potenziali parrocchiani, /1.000 frequentanti e i 200 realmente impegnati, mi sembra di poter dire che c’è una evidente sproporzione fra questi tre dati. Eppure la parrocchia è nata parecchi anni fa. Questo vorrebbe dire che essa non ha cristianizzato abbastanza il territorio?

La sproporzione è un dato reale e la esiguità del rapporto fa riflettere. Io penso che molti sentono la religiosità come il semplice venire a Messa o partecipare a momenti di culto; altri la intendono e la vivono in modo più autentico, cioè come un intimo rapporto culto-vita e questi sono pochi.

Come mai la Chiesa non ha saputo cristianizzare nella direzione dell’impegno, mentre il suo magistero ottiene ampi consensi nella direzione del semplice culto?

Noi tentiamo di cristianizzare e lo facciamo in vari modi; mediante incontri di Catechesi per adulti che si tengono ogni giovedì in parrocchia, alle 19,30; attraverso incontri di rione che organizziamo in vari momenti dell’anno e attraverso iniziative di volontariato. I limiti però nascono dagli scontri con questa mentalità: quando, ad esempio, qualche famiglia chiede la benedizione della casa, il sacerdote va con piacere e desidererebbe trovare tutto il nucleo familiare per conoscerlo nella sua interezza, invece quasi sempre vi trova solo una persona e quindi quel momento si limita a un semplice fatto devozionale e non diventa occasione di conoscenza umana, indispensabile perché si inizi un discorso religioso più significativo.

La esiguità del rapporto popolazione – frequentanti-impegnati non si può attribuire al fatto che vivere religiosamente è difficile?

Per me ciò è anche dovuto a un certo modo di intendere la religiosità, una religiosità che assume, per molti, un significato ed un valore utilitaristico. È la religiosità di chi considera la preghiera come una continua richiesta, domanda di favori: «Fammi stare bene, fa’ che mia madre guarisca, che mio figlio trovi un posto, che quello chiuda un occhio…». È evidente che tali atteggiamenti hanno poco o nulla di religioso, come pure è facile che una così fragile religiosità venga meno quando una richiesta non venga esaudita. Ad un sacerdote può capitare di sentirsi dire: «Come vuoi che io creda ancora? avevo pregato per mia madre, ma è morta…».

E allora in che consiste una autentica religiosità?

Religiosità è una esigenza religiosa, è un bisogno interiore di spiritualità, è un progressivo maturare di atteggiamenti religiosi; religiosità è passare da una abitudine alla domanda ad un atteggiamento di formazione e di crescita, possibilmente per dare; è ancora passare da un culto utilitaristico ad uno di adorazione. Un teologo protestante, Bonheffer, sostiene che per molti Dio sia semplicemente un «dio tappabuchi», a cui rivolgersi per avere una grazia.
In questa visuale anche il culto per alcuni santi assume un significato di tornaconto personale e sembra rispondere alla logica dell’interesse, per non parlare di una quasi sostituzione di antichi culti pagani; vedi il culto per S. Anna, o per S. Rita, o per S. Antonio. È sintomatico come in un tale tipo di culto non sia mai rientrato un santo come S. Agostino, il quale ci propone una religiosità impregnata di interiorità.

Da quanto tu dici verrebbe quasi di pensare che la società oggi non sia cristianizzata perché prevale la logica dell’interesse e del tornaconto, e non per l’affermazione di ideologie alternative. È così?

Indubbiamente tutto questo contorno sociale è poco cristiano e il messaggio della Chiesa va contro questo tipo di religiosità corrente. Penso che la Chiesa debba condurre la sua battaglia diffondendo con chiarezza il messaggio del Vangelo e dotandosi anche di mezzi di comunicazione sociale. Penso che il Vaticano dovrebbe avere una stazione televisiva il cui obiettivo dovrebbe essere la formazione di atteggiamenti autenticamente religiosi.

E ai giovani voi riuscite ad offrire questa autentica dimensione religiosa?

Il nostro continuo sforzo è che si passi dalla dimensione utilitaristica ad una religiosità nuova, interiorizzata. Per questo noi facciamo leva sulla Parola di Dio, sulla liturgia (una liturgia partecipativa, che stimola la riflessione e sollecita la comunicazione), sulla conoscenza del mondo e la partecipazione alla vita sociale.

 

6 agosto 1595

Scomunicato Nicola Ferrante

Viene scomunicato Nicola Ferrante «per non aver voluto desistere di tagliare pubblicamente il formaggio di domenica». Questo tipo di scomunica era prevista da precisi decreti ecclesiastici, che vietavano di lavorare o commercializzare durante le festività.

Avviso ai lettori

La rubrica "Balsignano" è in corso di allestimento e pertanto potrebbero essere riscontrati errori di trascrizione rispetto alla pubblicazione cartacea del numero di riferimento. 
La revisione in corso, supererà questa potenziale criticità operativa.

Grazie

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