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Quando Dario Fo venne a Modugno

Modugno 26 gennaio 2004, Galleria “Le Volte”, “Dario Fo – Disegni su carta”.

Il caso ha voluto che per un certo tempo abbia avuto un rapporto personale col “maestro” Dario Fo. Siamo al 26 gennaio 2004, quando su iniziativa di Rossana Andreola, prematuramente scomparsa, l’Amministrazione Comunale di Modugno organizzò nella “Galleria Le Volte” la mostra “Dario Fo – Disegni su carta”, che restò aperta sino all’8 febbraio 2004. Dopo l’inaugurazione della mostra, andai via, ma, giunto in Piazza Sedile, fui chiamato da Nicola Scelsi, che con altri amministratori e cittadini vari era lì con Dario Fo davanti al sagrato della Chiesa del Purgatorio; presentandomi al “maestro, esclamò: “Ecco, la persona giusta!”. “Professore, – disse Dario Fo – le sarei grato se potesse ricercarmi alcune notizie sulla prostituzione femminile a Firenze e Venezia fra Cinquecento e Seicento. Sa, io qui non posso disporre dei miei libri ed ho un impegno sull’argomento fra qualche settimana”. Restai impietrito:”Come, io dovrei dare delle notizie storiche ad un Premio Nobel? E per giunta su un argomento così complicato, del quale, peraltro, non so proprio nulla”; balbettai un “non so se ce la farò!”. Ma il “maestro”, che certamente aveva colto la mia reazione di timore, anzi di vera e propria paura, nonché di meraviglia per il tipo di argomento propostomi, mi disse: “Fra tre giorni sarò al Teatro Team. Io l’aspetto un’ora prima dello spettacolo, al quale lei sarà mio ospite insieme a sua moglie”.
Ritornai a casa e subito incominciai a ricercare fra i miei libri, che non sono pochi, ma sulle prostitute fiorentine e veneziane non avevo proprio nulla; solo in qualche saggio di storia riuscii a trovare qualche generico riferimento sulla prostituzione in Europa e in Italia.
Incominciai a nutrire dubbi sulla possibilità di poter scrivere qualcosa sull’argomento e pensai seriamente di telefonare al maestro comunicandogli di non poter affrontare l’argomento. Un’amica, però, mi riprese: “Come, Lillino, tu vuoi dire di no ad un Premio Nobel?”. Questo rimbrotto ampliò ancora di più i sensi di colpa che già avvertivo per la non adesione ad una richiesta di un Nobel, diventato tale con una nobile motivazione: “Dileggia il potere, restituendo dignità agli oppressi”.
Il giorno successivo, subito dopo le mie ore di lezione, ero nella Biblioteca Nazionale di Bari e, grazie alla collaborazione di una mia amica, che lì lavora, portai a casa diversi volumi che studiai ininterrottamente. Mi si aprì tutto un mondo a me sconosciuto: non sapevo che la prostituzione era allora così diffusa, tanto da essere regolamentata nei minimi particolari. E si prostituivano temporaneamente soprattutto le donne del popolo per miseria, necessità o addirittura per farsi la dote, requisito necessari in quel tempo per maritarsi. Ricordo di aver trovato un dato che mi colpì: mediamente in molte città il 20% della popolazione femminile esercitava stabilmente o temporaneamente la prostituzione.
E finalmente, dopo uno studio continuo e ininterrotto di tre giorni, riuscii a mettere su una lunga relazione. Stanco, ma molto contento, all’ora e al giorno prefissati ero lì con mia moglie davanti al grande cancello del Teatro Team. Si avvicinò un usciere che, piuttosto infastidito, ci disse che ci voleva del tempo perché si potesse entrare; il suo volto, però, volse al sorriso non appena dissi che avevo un appuntamento con Dario Fo.
“Il suo nome?”, mi chiese. E accertatosi che nome e cognome da me pronunciati coincidessero con quelli che erano scritti su un bigliettino, che tirò fuori da un taschino della sua divisa, ci accompagnò dietro le quinte del teatro con molta premura e con infinita gentilezza. Suonò un campanello e sene andò, non prima di averci detto che sarebbe arrivato subito qualcuno.
Dalla fine di un lungo corridoio, poco illuminato, scorgemmo una donna che veniva verso di noi. Aveva un’andatura molto dimessa ed era vestita in modo assai modesto: “Prego – ci disse – seguitemi”; e, rivolgendosi a me, aggiunse: “Il maestro l’aspetta”. La voce della donna, dal timbro inconfondibile, rivelò la persona: era Franca Rame. Mia moglie ed io ci guardammo meravigliati: non capita tutti i giorni imbattersi in Franca Rame, che per giunta, in veste di semplice usciere, ci conduceva al camerino di suo marito.
Entrammo nel piccolo e spoglio camerino di Dario Fo: di fronte alla porta c’era un tavolino con una sedia, la cui spalliera era interamente ricoperta da una maglia di lana, simile a quelle utilizzate da mio padre, che mia madre subito gli porgeva come cambio quando egli ritornava dal lavoro o dalla campagna; appesi agli attaccapanni diversi vestiti di scena. Il maestro, con gli occhi chiusi, era seduto su una sedia a sdraio, posta a destra della porta: sembrava stanco e sembrava che riposasse. Non ci fu bisogno che Franca Rame gli dicesse qualcosa, perché egli subito si alzò e ci salutò: “Buonasera professore, buonasera signora, sono contento che siate venuti. Spero che lo spettacolo vi metta di buon umore!”:
Io tirai fuori da una cartella i fogli della relazione sulla prostituzione e lui diede subito quello che comunemente chiamiamo uno sguardo d’insieme. Ma non fu un semplice sguardo d’insieme, poiché a me sembrò che i suoi occhi, ora subito vivi, cogliessero con immediatezza il senso e la struttura dell’intera relazione. Dopo una breve chiacchierata sul mio lavoro di docente di storia e filosofia e sulla realtà della scuola qui a Bari, il maestro mi disse: “Grazie molto, professore, la studierò dopo lo spettacolo. Ora accomodatevi, vi sono due posti per voi”. Suonò un campanello ed arrivò l’usciere del cancello che ci portò ai nostri due posti: si trattava di due poltrone in prima fila!
Iniziò lo spettacolo e quell’uomo che poco prima sembrava stanco e assonnato su una sdraio, ora si muoveva sul palco con leggerezza e guizzi veramente sorprendenti, da grande maestro.
Alla fine dello spettacolo, mentre ci ponevamo il problema se dovessimo andare a salutarlo, mi sentii chiamare più volte: “Professore, professore…”. Era Dario Fo che veniva verso di me, facendosi strada fra la folla di persone che si accingeva a guadagnare l’uscita. Ci chiese se lo spettacolo ci fosse piaciuto e parlammo un po’. Ricordo che, fra l’altro, gli dissi che nel 1970, quando – diciamo così – non era ben visto da una parte consistente della popolazione italiana e soprattutto dal potere, avevo assistito al suo “Mistero buffo” che egli diede per più giorni al “Petruzzelli”; aggiunsi anche che conservo ancora il libretto e il disco in vinile di quello spettacolo, le cui repliche poi negli anni di gloria sono state di numero infinito.
Dario Fo mi chiese poi con molta discrezione e quasi con timore se potessi preparare una seconda relazione su Caravaggio, scusandosi di approfittare della mia disponibilità, cosa che feci, inviandogliela poi per e-mail ad un albergo di Napoli. Dopo qualche ora mi telefonò, promettendomi che mi avrebbe inviato un suo disegno. Qualche settimana successiva, mi telefonò l’amico Serafino (Corriero) informandomi che in televisione c’era Dario Fo che parlava di Caravaggio, utilizzando anche notizie presenti nella mia relazione.
L’incontro con Dario Fo mi ha dato molte sollecitazioni culturali e morali: a parte alcune lezioni che tenni ai miei studenti sulla bellezza e la profondità del teatro, ho capito ancora di più quanto sia importante occuparsi degli “oppressi” per restituire ad essi quella dignità di persone che, purtroppo, la società, il potere e spesso anche noi stessi di fatto non riconosciamo.
E le prostitute e Caravaggio, con le tante sue disavventure, caspita se non rientrano in quella umanità sofferente degli oppressi, che attendono da sempre la loro liberazione.

Raffaele Macina

Vogliono metterci la museruola ai cervelli (Dario Fo)

Nuove fonti per la storia di Balsignano

Due documenti inediti sul passaggio di Balsignano da casale fortificato a fondo murato
Parte 1 di 2

Anno XXV N.111 Dicembre 2003
Claudia De Liso e Maria Franchini

Pubblichiamo questo primo intervento di due giovani studiose (Claudia De Liso, laureata in Conservazione dei Beni Culturali, e Maria Marchini, laureanda in Architettura), che da alcuni anni, anche per nostra sollecitazione, sono impegnate in una ricerca sistematica sulle fonti e sulla storia di Balsignano. Questo primo intervento ha un indubbio interesse scientifico per la segnalazione di due atti inediti del notaio Giacomo Filippuccio di Bari che sono importanti per capire l’evoluzione di Balsignano da casale fortificato a fondo murato. (R.M.)

L’esistenza del borgo di Balsignano era già nota agli studiosi dell’Ottocento. Il Garruba citò tra i documenti trascritti dal Muratori il diploma del 1092 con cui il duca Ruggiero donava Balsignano al monastero benedettino di S. Lorenzo di Aversa ed il successivo diploma di conferma del 11021; individuò tra le monete coniate a Brindisi da Carlo I d’Angiò, pubblicate nel catalogo di Forges – Davanzati, quella su cui poteva leggersi «Balesinianum Unc. I tar. XIII»; infine riportò i nomi di alcuni feudatari desumendoli dagli studi del Paglia su Giovinazzo e dal dizionario del Giustiniani all’articolo “Acquaviva”2.

           

La storia di Balsignano tuttavia fu ricostruita in maniera sistematica dallo studioso Giuseppe Ceci,3 che condusse una approfondita indagine archivistica a Napoli tra le carte dei “Monasteri Soppressi”, tra i “Fascicoli Angioini” ed i “Registri Angioini”, ricavandone una discreta quantità di notizie riguardanti il periodo tra dalla fine del Duecento e la fine del Trecento, da quando cioè i Benedettini di Aversa non amministrarono più direttamente il loro possedimento e lo cedettero a censo; riportò i nomi dei feudatari ed alcune vicende del borgo; dall’importo pagato dalla comunità per la sovvenzione generale (colletta) dedusse il numero degli abitanti. Altre notizie, più frammentarie, si riferivano al Cinquecento ed attestavano il declino del centro abitato a quell’epoca, e la rovina delle sue strutture fisiche. Un importante documento scoperto dal Ceci a Napoli è un atto del maggio 1229 contenente i nomi e le precise ubicazioni delle due chiese di S. Maria di Costantinopoli e di S. Felice, identificate con le due chiese oggi superstiti di Balsignano. A Bari, tra le pergamene di S. Nicola, il Ceci individuò un istrumento del maggio 962 riferito a beni situati in loco Basiliniano: è la più antica fonte scritta riguardante la contrada.

Recentemente la cronologia relativa al casale è stata ampliata attraverso altre fonti: gli scavi archeologici, eseguiti finora solo su una minima parte del suolo dell’antico insediamento, hanno rivelato, in prossimità della chiesa di S. Felice, la presenza di un sepolcreto e di un edificio di culto databili ai secoli VIII-IX d.C., testimoniando una frequentazione del luogo in epoche precedenti4.

           

Il nostro contributo, frutto di una ricerca svolta presso l’Archivio di Stato di Bari, l’Archivio Notarile di Bari, l’Archivio Capitolare di Modugno e l’Archivio della Soprintendenza ai Beni Ambientali ed Architettonici della Puglia, mira a ricostruire quella parte di storia del sito che vede il suo antico ruolo di centro abitato difeso da mura trasfigurarsi in quello di fondo murato, cioè di proprietà privata di un individuo. In particolare, la maggior parte dei documenti che abbiamo raccolto fornisce il quadro completo dei passaggi di proprietà dal 1752, anno in cui venne redatto il Catasto Onciario di Modugno, al 2000, anno in cui il terreno contenente le vestigia del casale di Balsignano è stato acquisito al patrimonio della città di Modugno.

           

Altri documenti da noi trovati vanno ad aggiungere qualche tassello al mosaico della più antica storia del borgo. Di questi ci occupiamo nel presente articolo ripercorrendo, alla luce delle nostre indagini, quanto già riferito dal Ceci sulle vicende del casale di Balsignano nel Cinquecento5.

           

Tra i fascicoli del “Fondo d’Addosio” presso la Biblioteca Nazionale di Bari è conservata una nota di appunto dal titolo “Balsignano” che riporta in sintesi il contenuto di due atti, rogati dal notaio Francesco Giacomo Filippuccio di Bari, riguardanti il casale6. Tali atti sono conservati presso l’Archivio di Stato di Bari.

           

Il primo7, datato 19 febbraio 1529, è un atto di procura, con cui Bessarione di Biella, monaco del monastero dei SS. Severino e Sossio di Napoli, dell’ordine dei Benedettini della Congregazione Cassinese alias di S. Giustina di Padova, come legittimo procuratore di Marco di Pontramoli8, abate del suddetto monastero e del monastero di S. Lorenzo di Aversa, con ampia potestà di prendere possesso del castello di Balsignano e di esigerne redditi e proventi, nomina sostituti procuratori, con la stessa potestà, Giovanni de Erminzano («Hermizano»)9 ed un tale Angelillo10 di Modugno.

Venne così ripristinata una situazione di legalità, dopo che, con una sentenza del Sacro Regio Consiglio del 24 marzo 1528, sanzionata dal viceré del Regno di Napoli, ed eseguita il febbraio dell’anno seguente, la badia di S. Lorenzo aveva espulso i fratelli Eligio, Giovan Vincenzo, Raffaele e Alfonso della Marra, che avevano illecitamente occupato il territorio di Balsignano11.

           

Nel secondo atto del notaio Filippuccio12, datato 23 novembre 153113, il nobile Giovanni de Erminzano, sostituto procuratore del suddetto monaco Bessarione di Biella, loca e concede in enfiteusi per ventinove anni ad Angelo de Re Basilio, cittadino di Ceglie ed abitante in Modugno, un aratro e mezzo di terra non coltivata e con macchia, con alberi di diverso genere, sito in territorio di Balsignano, confinante con la terra dei Montanari di Modugno, con la pescara di S. Leonardo e con altri confini, per l’annuo censo di due tari in carlini d’argento da pagare alla festa della Natività a partire dall’anno seguente.

           

Nel documento del 1528, secondo quanto riportò il Ceci, si parla del castello e del casale come già dirupati. Lo stato di abbandono e di rovina di quei luoghi spiega perché nel 1536 la badia avesse espresso il proposito, non seguito, di una vendita del territorio di Balsignano, che ormai rendeva soli 50 ducati all’anno14. Nel 1552 tuttavia il casale fu concesso in affitto a Camillo Dottula di Bari per 170 ducati15.

           

Nel 1561 fu compilato un inventario di tutte le terre e fabbriche rurali che componevano la tenuta di Balsignano con i confini, i nomi dei coloni, quasi tutti abitanti di Modugno, e le cifre dei censi annuali16. Tra le proprietà elencate compare un giardino con alcuni alberi, tra cui un noce, situato in località detta Balsignano, confinante con la pescara di S. Leonardo o di Galeazzo Plummarola, con il mandorleto di Bartolomeo Montanari di Modugno, con le mura del casale di Balsignano e con altri confini. Questo giardino è posseduto indebitamente da un tale Angelo, abitante di Ceglie e cittadino di Modugno, in quanto la sua pretesa di averlo avuto in concessione dal monastero di S. Lorenzo per l’annuo censo di tari quattro e grana otto risulta, per il procuratore del suddetto monastero, nulla e non rispondente a diritto.

           

Nel 1565 fu emesso un bando per una concessione perpetua dell’intero territorio mercè un canone annuo17. La vendita del casale di Balsignano avvenne però solo nel 1606, con atto recante la data del 22 ottobre rogato dal notaio Ottavio Petino di Aversa 18. Dalla lettura del documento si apprende che i monaci di Aversa possiedono il luogo edificato, 0 meglio diruto, con alcuni alberi da frutta, circondato da mura, un tempo volgarmente detto casale di Balsignano, confinante con i beni di Domenico Preschi, con i beni di Modugno, con la via pubblica per la quale si va da Modugno a Bitritto, con un’altra via antica per la quale si va a Bari e con altri confini. I monaci vendono tale proprietà al signor Giovanni de Surdo di Modugno per il prezzo convenuto di duecento ducati. Le condizioni elencate di seguito nell’atto, non completamente leggibile, contengono il riferimento ad un censo annuo di dieci ducati affiancabile in qualsiasi momento dal compratore o dai suoi eredi o successori mediante versamento dell’intera cifra.

           

Tale peso non fu mai estinto. Infatti, nel Catasto onciario di Modugno del 1752 si rileva che il proprietario del fondo di Balsignano, Vito Nicola Faenza, sacerdote del Capitolo della chiesa madre di Modugno, pagava ai benedettini di Aversa una quota annuale di 33 once e 10 tarì, che viene messa in relazione ad una somma di duecento ducati e ad un censo annuale di dieci ducati19.

           

Dalla consultazione del suddetto Catasto si desume inoltre che a quell’epoca l’abbazia di Aversa era ancora in possesso di terre, sia in località Balsignano che in altre contrade di Modugno. Più precisamente, essa risulta proprietaria di nove aratra di terra con alberi d’olivo siti nel luogo detto Balsignano, confinanti con i beni degli eredi di Saverio Vitucci e con i beni di Michele Pantaleo, per una rendita di trenta once, oltre che di sette aratra di terreno con alberi siti nel luogo detto macchia Simone, di sei aratra di terreno con alberi d’olivo situati nel luogo detto le Tacche, di due aratra di terreno con alberi d’olivo siti nel luogo detto Procito, per una rendita totale di 88 once e 20 tari20.

           

Nei Catastini di Modugno del periodo compreso tra il 1765 e il 1804 si ritrovano le stesse proprietà21.

I nove aratra di terreno appartenenti all’abbazia di Aversa siti in Balsignano, pervenuti al demanio dello Stato dall’asse ecclesiastico, furono venduti a privati nel 1867, come attestano due fascicoli relativi alla vendita all’asta rispettivamente di aratro uno e di aratra otto di terre in località Balsignano identificati, in base ai dati catastali ed ai confini, con i possedimenti dell’abbazia22.

Note

1 M. GARRUBA, Serie critica de’ Sacri Pastori baresi, Tipografia Fratelli Cannone, Bari 1844, p. 95.
2 M. GARRUBA, op. cit., p. 930.
3 G. CECI, Balsignano, in “Japigia”, III, 1932, pp. 47-66.
4 G. LAVERMICOCCA, Modugno (Bari), Balsignano, in “Taras. Rivista di archeologia”, Editrice Scorpione, Taranto, X, 2,1990, pp. 425-427, tav. CCXVI,i-2.
5 Ringraziamo vivamente la dott.ssa Beatrice Viganotti dell’Archivio di Stato di Bari per l’aiuto offerto nella lettura ed interpretazione dei manoscritti del Cinquecento e del Seicento, e per i consigli utili alla stesura del presente articolo.
6 Biblioteca Nazionale “Sagarriga Visconti Volpe” di Bari, Archivio d’Addosio, fase. 10/47.
7 Archivio di Stato di Bari, Atti notarili di Bari, Not. Francesco Giacomo de Filippuccio, prot. aa. 1527-29, c. 66 r-v (antica numerazione).
8 II nome non è integralmente leggibile, perché il foglio del manoscritto presenta delle lacune, ma così viene riportato nella sintesi del d’Addosio.
9 Gli Erminzano giunsero a Bari da Milano negli anni della signoria di Isabella Sforza. Il Petroni (G. PETRONI, Della storia di Bari dagli antichi tempi sino all’anno 1856, ristampa anastatica dell’edizione di Napoli del 1857-58, Forni Editore, Bologna 1971, voi. I, p. 540) cita un Antonio Ermizano. Il Tateo (Storia di Bari nell’Antico Regime, a cura di F. Tateo, Editori Laterza, Roma-Bari 1991, voi. I, p. 182) scrive che alla metà del Cinquecento il “nobil messere” Giovanni riuscì ad evitare la scomparsa del proprio casato dando in sposa la figlia Giulia ad Annibaie Gallo, di origini napoletane, ed imponendo la fusione dei due cognomi nei discendenti, condizione che presupponeva la trasmissione a Giulia di una fetta cospicua dei beni paterni. Le vicende degli Erminzano sono documentate da un libro di famiglia depositato presso l’Archivio della basilica nicolaiana.
10 Anche qui il nome non è leggibile per intero; questo secondo procuratore non è stato citato dal d’Addosio.
11 G. CECI, Balsignano, inserto a “Nuovi Orientamenti”, anno X, n. 5-6, settembre-dicembre 1988, p. 8.
12 Archivio di Stato di Bari, Atti notarili di Bari, Not. Francesco Giacomo de Filippuccio, prot. aa. 1530-32, c. 46 r-v (antica numerazione).
13 L’anno scritto sul documento è il 1532, ma poiché il notaio usava datare in base allo stile bizantino, abbiamo riportato la data al computo moderno.
14 G. CECI, op. cit., p. 10, n. 1.
15 Ibidem.
16 Ibidem. Questo documento presenta un grande interesse ai fini della ricostruzione dell’assetto del territorio e della toponomastica a quell’epoca.
17 Ibidem.
18 Archivio di Stato di Caserta, Atti notarili di Aversa, Not. Ottavio Petino, prot. aa. 1606-1608, cc. 48V -51V.
19 Archivio di Stato di Bari, Catasti onciari, Modugno, 1752, cc. 528V -529V.
20 Ivi, cc. 772V -773V.
22 Archivio di Stato di Bari, Catastini, Modugno, 1765-1784, 1795-1798,1799-1801,1802-1804.
23 Archivio di Stato di Bari, Asse Ecclesiastico, busta 100, fase. 7156; ivi, busta 101, fase. 7195.

Balsignano in mostra a Taranto

Anno XXV N. 109 Luglio 2003 
Redazione

Il 3 maggio è stata inaugurata a Taranto presso il convento di San Domenico la mostra “Terra, Grano, Argilla – Uomini e tradizioni di ottomila anni fa nella Bassa Murgia Barese” che presentava reperti del neolitico rinvenuti nel Pulo di Molfetta, nel villaggio di Balsignano, nelle Grotte di Santa Croce di Bisceglie e negli insediamenti di Rutigliano. La mostra, organizzata dalla Soprintendenza per i Beni Archeologici della Puglia all’interno della V settimana per la Cultura, è stata presentata dal soprintendente Giuseppe Andreassi che ha ringraziato particolarmente le amministrazioni comunali interessate per il sostegno assicurato alle campagne di scavo, e da Francesca Radina, direttrice del Centro operativo archeologico di Bari. Erano presenti delegazioni di amministratori dei quattro Comuni sopra citati.
La Radina, curatrice della stessa mostra, ha sottolineato come la terra, il grano e l’argilla costituissero i tre elementi-chiave “dell’inedito scenario che nel VI millennio a. C., in un mutato rapporto con le risorse naturali, viene configurandosi nell’Italia sud-orientale, sull’onda di nuovi elementi culturali introdotti via mare e provenienti da lontane regioni del Mediterraneo orientale”. Le ricerche, ancora in corso, hanno già messo in luce quel processo di trasformazione economica e culturale, peraltro comune ad altre aree del Mediterraneo che vanno dall’Oriente alla penisola iberica: il nuovo modello abitativo, con villaggi stabili che si estendono per due o tre ettari; l’economia di sussistenza basata sulla cerealicoltura (grano vestito e orzo) e sull’allevamento degli ovicaprini; la produzione di contenitori in argilla cotta decorati con impressioni a crudo. Nell’elegante pieghevole di presentazione della mostra la Radina, a proposito del villaggio neolitico di Modugno, scrive: “L’abitato di Balsignano… lambiva le sponde del basso corso di Lama Lamasinata, ancora oggi caratterizzata da boschetti di querce e vegetazione a macchia mediterranea. I due grandi ambienti abitativi evidenziati (m 7×4), distanti circa 20 metri uno dall’altro, datati in cronologia assoluta al 5400 a. C., rappresentano la testimonianza più completa e più complessa, per quanto finora noto nellTtalia meridionale di architettura neolitica, con “capanne” a pianta rettangolare, angoli arrotondati, pavimentazione a vespaio di pietre, zoccolo perimetrale in pietra ed elevato in paletti e travi in legno, canne e rivestimento a crudo di impasto argilloso. Nei pressi, focolari e strutture accessorie per la cottura a cielo aperto possono essere ricondotti alla manipolazione e alla cottura dei cibi. Contenitori in impasto tra cui predominano quelli decorati a impressioni, macine in calcare e lame in selce immanicate in falcetti lignei costituivano i tipici caratteri distintivi degli antichi agricoltori stanziati a Balsignano. Una delle sepolture individuate nel sito, riferibile ad un soggetto femminile di cinquanta anni di età, e datata in cronologia assoluta C14 calibrata al 5600 a. C., indica la pratica della posizione rannicchiata sul fianco, in fossa ovale, priva di oggetti di corredo, con alcune lastre in calcare a parziale copertura del tronco dell’individuo”.
Il sindaco Rana, in un suo breve intervento, ha assicurato il sostegno del Comune per la valorizzazione dell’insediamento di Balsignano e si è dichiarato interessato a riproporre a Modugno la mostra “Terra, Grano, Argilla” che, presumibilmente, si terrà a fine estate.

La donazione di Ruggero il Normanno

Anno XXV N. 108 Aprile, Maggio 2003
Anna Maria Dilillo

Con questo documento, citato nel saggio del Ceci [link a fondo pagina ndr], il duca Ruggero, figlio di Roberto il Guiscardo, e sua moglie Adele di Fiandra donarono il casale di Balsignano all’abbazia benedettina di Aversa nel 1092. Ruggero, detto Borsa, era figlio cadetto di Roberto e della sua terza moglie Sichelgaita. Alla morte del padre (1085) entrò in lotta col fratello maggiore Boemondo col quale, grazie alla mediazione dello zio, Ruggero di Sicilia, giunse ad un accordo: Boemondo divenne signore di Taranto, Otranto e Gallipoli, Ruggero ottenne l’investitura del ducato di Puglia dal papa Urbano II (1089). Per poter conservare i propri possedimenti, Ruggero fu costretto a cospicue donazioni alla Chiesa, specialmente al monastero di Cava dei Tirreni e a quello di Aversa, che “divenne molto potente. La sua giurisdizione, tra il XII e il XIII secolo, si estendeva in Campania e in Puglia su ottanta chiese, presso le quali erano monasteri e grancie con villaggi e larghi e pingui territori”.
Nel documento si fa riferimento a motivazioni di ordine religioso e spirituale, in realtà ciò che spingeva a donare ampi territori del proprio stato alla Chiesa erano accorti calcoli politici.
Ruggero proseguiva la politica paterna: infatti Roberto, dopo aver battuto nella battaglia di Civitate sul Fortore (1053) papa Leone IX, si dichiarò vassallo della Chiesa e venne investito da papa Niccolò II del ducato di Puglia e di Calabria (1059); più tardi, dopo essere stato per due volte scomunicato da papa Gregorio VII, Roberto prestò nuovamente giuramento feudale al papa (1080), che accettò l’omaggio in vista della lotta contro l’imperatore Enrico IV. La scomparsa di Roberto e di Gregorio VII non pregiudicò questa situazione politica, anzi “l’alleanza tra papato e Normanni è ora più stretta .[…] Urbano II vuole incoraggiare la diffusione del rito latino in Puglia utilizzando l’ordine benedettino e limitare l’influenza del clero di rito greco, divenuto scismatico dopo il distacco da Roma del patriarcato di Costantinopoli nel 1054. A questo programma sono interessati, per ragioni strettamente politiche, Ruggero Borsa e Boemondo, che conservano tutta la carica antibizantina del padre”.
Coinvolto in questo gioco di alleanze, l’ordine benedettino rimarrà in Balsignano dalla fine del secolo XI alla fine del XIII secolo; in seguito il casale verrà ceduto dai monaci “in concessione temporanea mercè un canone annuo che andò salendo da 25 a 50 once d’oro”. Dai documenti non risulta nulla circa i miglioramenti nelle culture e nella vita della popolazione rurale apportati dai benedettini, ma si può ragionevolmente supporre che in questi due secoli, che non a caso videro fiorire lo stile romanico-pugliese, la loro opera non sia stata estranea alla ripresa economica della nostra regione.

IL DOCUMENTO DELLA DONAZIONE
IN NOME DELLA SANTA E INDIVISIBILE TRINITÀ RUGGERO 

IN NOME DELLA SANTA E INDIVISIBILE TRINITÀ RUGGERO
col favore della clemenza divina duca erede e figlio del magnifico duca Roberto, se abbiamo atteso al culto divino, all’onore e al bene della santa Chiesa con la dovuta riverenza e in degna misura, certamente dobbiamo profondere cura diligentissima e sollecitudine intorno alla santa Chiesa di Dio, affinché la pietà divina ci protegga con tanto maggior favore, con quanto più fervore ci siamo preoccupati di esaltare e di difendere secondo le nostre forze la sua Chiesa.

Quindi per amore di Dio onnipotente che non disdegnò di incarnarsi e di sopportare il supplizio della croce e di morire per liberarci dalla morte eterna, nonché per la salvezza dell’anima del su ricordato nostro genitore e della nostra genitrice, per la salvezza del nostro stato, per l’intervento di Adele, nostra diletta sposa, concediamo e confermiamo al monastero del santo martire Lorenzo, che è costruito nella città di Aversa, dove ora col favore di Dio è a capo il signore Guarino venerabile abate, Balsignano con tutte le sue appartenenze, le terre coltivate ed incolte, gli oliveti, le vigne, i pascoli, per questi confini: cioè dalla via che scende a Bari sino all’altura sullo stesso castello di Balsignano, dall’altro lato attraverso la valle dell’episcopato barese sino alla terra di Grifo e così scende sino alla grande strada che conduce alla suddetta città di Bari.

E [concediamo e confermiamo] San Nicola di Bitetto con tutte le sue appartenenze e con l’uso del mulino e del frantoio sia tra i suoi uomini che tra gli altri, chiunque volesse macinare senza nostra contrarietà e dei nostri uomini, dei nostri eredi o successori e balivi
E [concediamo e confermiamo] Santa Caterina con tutte le sue appartenenze.
E [concediamo e confermiamo] Sant’Oronzo di Taranto e cinque pescatori, tre tra quelli con due barche nel mare grande e piccolo, un quarto con una sola barca nel mare grande e piccolo e un quinto con una chiatta.
E [concediamo e confermiamo] San Nicola di Monopoli con tutte le sue appartenenze e San Giovanni di Troia che si trova sul monte Capillone con tutte le sue appartenenze e lo stesso monte per questi confini: dalla parte orientale c’è il castello di Carbonara e così scende direttamente attraverso una piccola valle e conduce direttamente sul borgo, scende attraverso il borgo in una strada più grande, dalla parte meridionale vi è Carbonara vecchia, sale sino alla cima del monte e dallo stesso lato del monte scende attraverso la valle più grande sino alla via pubblica e così prosegue per la via pubblica sino al suddetto castello di Carbonara.
Concediamo anche la terra appartenente al nostro stato con la fonte che viene chiamata Torridi che ha questi confini: comincia dal sentiero che è in questa terra e la terra del diacono Guidone e prosegue lungo una grande strada pubblica sino alla carraia che proviene da Stafilo e scende per la suddetta carraia sino ad un grande sentiero, poi prosegue attraverso il sentiero e giunge ad una piccola altura che è di fronte al predetto sentiero, dalla stessa altura sale e va direttamente in una piccola valle e giunge al suddetto sentiero che è tra questa terra del diacono Guidone e attraverso lo stesso sentiero va nella suddetta via grande.
E insieme concediamo allo stesso monastero tutta la casa che il troiano De Mileto ottenne in Troia da noi, ad eccezione di dieci villani, della terra per un aratro e delle due case che donammo alla signora Fredelsenda moglie di Geroy.
Confermiamo anche e concediamo a te signore Guarino venerabile abate della stessa chiesa e ai tuoi successori per parte e in luogo della tua chiesa tutto ciò che Guarino, signore di Salpi, e Roberto, signore di Bari, diedero e concessero al vostro monastero.
In verità in modo tale che tutti i beni suddetti siano sempre liberamente sotto il dominio e il potere del suddetto monastero, dell’abate e dei suoi successori e una parte dello stesso monastero.
E il predetto signore abate Guarino e i suoi successori abbiano licenza e potere nelle predette terre e in tutte le altre nostre terre dove volessero di erigere chiese, costruire casali, affidare uomini, coltivare vigne, uliveti e altri frutteti, costruire mulini, forni e frantoi nei predetti confini dove volessero. E il predetto monastero, l’abate e i suoi successori non abbiano alcun impedimento né da parte nostra o dai nostri eredi o successori o dai nostri strateghi, giudici, turmarchi, viceconti plateali o da qualsiasi ministeriale dello stato o da qualsiasi uomo in qualunque tempo circa le predette terre, i villani e tutti gli edifici che in esse sono da costruire, né facciano togliere alcuna cosa concessa ai villani, l’affìdatura o il plateatico o facciano fare qualche angaria .
Se in verità qualcuno con temeraria impresa violerà queste nostre concessioni sappia che verserà cinquecento libbre di oro purissimo metà alla nostra camera e metà al suddetto medesimo monastero. E queste nostre concessioni siano stabilmente e permangano fermamente. In verità abbiamo ordinato a te Grimoaldo nostro notaio di scrivere il testo di queste nostre concessioni e abbiamo comandato di sigillarlo col nostro ripario con un sigillo di piombo. Nell’anno dell’incarnazione del Signore millesimo novantesimo secondo, settimo del nostro ducato, nel mese di maggio, quindicesima indizione .

IO RUGGERO DUCA sottoscrissi Testimoni
+ Io Adele duchessa per grazia di Dio
+ Segno di Guidone figlio di Roberto, duca magnifico
+ Segno di Boemondo
+ Segno di Guglielmo de Broilo stratega
+ Segno di Ubaldo figlio di Aldeprando
+ Io Maffrido giudice
+ Io Pietro figlio di Giovanni Crispo
+ Io Alfefì figlio di Giovanna in fede
+ Io Diferio Cervuno
+ Io Aldebrando.

Edizioni “Nuovi Orientamenti”

Balsignano, Giuseppe Ceci, 1988

I Templari a Balsignano sono frutto della fantasia

Anno XXIV N. 106 Dicembre 2002
Gaetano Pellecchia

Il fatto che beni culturali locali suscitino interesse all’estero è cosa che fa piacere. Fa meno piacere scoprire che i termini cronologici di riferimento di tali beni siano imprecisi. Ci si riferisce al numero di ottobre 2002 di Nuovi Orientamenti in cui viene segnalato un reportage pubblicato su una rivista francese {GEO) dove si accenna alla chiesa di S. Felice in Balsignano ed alla masseria Cafariello. L’imprecisione riguarda la chiesa di S. Felice. Appare opportuno riportare la citazione e la relativa traduzione: «…une chapelle de pierres blanches livrèe aux geckos. Sous ses coupoles, construites par les Templiers…» («… una chiesetta di pietre bianche abbandonate ai gechi. Sotto le sue cupole, costruite dai Templari…»). Ancora più esplicita, se possibile, la didascalia a commento dell’immagine della chiesa di S. Felice: «Près de Bari, cette chapelle avait été costruite par les Templiers au XI siècle» («Presso Bari, questa chiesa è stata costruita dai Templari nell’XI secolo»).

Come si sa, l’Ordine dei Templari nacque nel contesto della prima crociata (1096-1099) e si sviluppò nel periodo successivo ad essa. La prima fonte (postuma) in cui si parla dei Templari è quella della Cronaca di Guglielmo di Tiro, che attesta la loro presenza nel 1118. Nel XII secolo crebbero sia la fama militare sia la ricchezza finanziaria e fondiaria dell’Ordine dei Templari, che verrà riconosciuto dalla Chiesa nel 1139.

A tutt’oggi, lo studio più completo e attendibile sulla chiesa di S. Felice in Balsignano è quello di Adriana Pepe. In tale lavoro si ribadisce l’assenza di fonti cartacee ed iconografiche tali da stabilire con una certa precisione il periodo (o l’anno) di fondazione della chiesa di S. Felice. La studiosa assume come termine post-quem la fine del IX secolo -1092: donazione del duca Ruggero all’abbazia di S. Lorenzo di Aversa- e come termine ante quem il 1197. Adriana Pepe, inoltre, ipotizza, con molta cautela, che S. Felice sia stata fondata nella prima metà del XII secolo.
Dunque, allo stato attuale degli studi, sostenere che la chiesa di S. Felice in Balsignano fu costruita dai Templari è un falso storico. Appare difficile immaginare che un qualche gruppo di Templari, finita la prima crociata, abbia avuto il tempo di “progettare” ed edificare a Balsignano una chiesa. Alcune brevi riflessioni, tuttavia, si impongono. In primo luogo, collocare i fenomeni storici, e di qualunque altro genere, nel loro contesto cronologico è, oltre che pratica storiografica corretta, sintomo di corretta informazione.

Non si tratta di erudizione. La giusta contestualizzazione di un fenomeno consente di leggere quest’ultimo in maniera più complessa, nelle sue molteplici relazioni con una serie di altri fattori. Nel caso della chiesa di S. Felice in Balsignano, attribuirne la costruzione ai Templari significa ignorare gli elementi culturali, sociali ed economici che hanno connotato il territorio di Balsignano a partire dal Neolitico, trascurare le vicende politiche, socioeconomiche e religiose dell’area in cui è ubicato il casale di Balsignano, non considerare le ricerche compiute. Sia chiaro: non si pretende da una rivista a carattere divulgativo di svolgere puntuali e minuziose ricerche storiografiche su un fenomeno, ma di documentarsi a sufficienza. Insomma, l’impressione è che i redattori di GEO non hanno effettuato per la Chiesa di S. Felice in Balsignano quella «lunga e accurata indagine» che, a quanto pare, è stata svolta per gli altri insediamenti oggetto del loro servizio.
Sostenere, inoltre, che la chiesa di S. Felice fu costruita nell’XI secolo dai Templari significa, probabilmente, accontentare le aspettative del lettore francese. Va ricordato, in proposito, che era francese la maggior parte della nobiltà feudale che partecipò alla prima crociata, così come una amplissima componente francese connotava l’Ordine dei Templari. Ora, con articoli come quello di GEO passa l’immagine dei Templari costruttori di chiese in luoghi dove prima non c’erano, ovvero dei Templari (e quindi della Francia) portatori di religione e civiltà. Più che alla Francia, bisogna guardare agli intensi, proficui e secolari rapporti fra la due sponde dell’Adriatico.
Infine, affermare che una chiesa è stata costruita dai Templari vuol dire, a livello di cultura diffusa, associare ad un luogo di culto il carattere “misterioso” ed “esoterico” che accompagna la fama dei Templari. La chiesa si carica di significati che affascinano il lettore comune e tende a connotarsi come luogo degno di visita turistica. La chiesa di S. Felice ha una storia probabilmente complessa e ancora da scoprire. Perché, per renderla interessante, la si deve associare ai Templari?

Alla riscoperta dell’uomo di Balsignano

Anno XXIV N. 106 Dicembre 2002
Dina Lacalamita

Una visita guidata sul sito del villaggio neolitico di Balsignano è stata effettuata nella mattinata del 16 novembre: guida d’eccezione, Francesca Radina, archeologa, responsabile del Centro Archeologico Operativo di Bari; fra i visitatori, docenti illustri dell’Università di Pisa, Renata Grifoni Cremonesi, e dell’Università La Sapienza di Roma, Alessandra Manfredini; era presente anche il Sindaco di Modugno, Pino Rana.
L’itinerario, che prevedeva un sopralluogo anche al Pulo di Moffetta, è stato voluto come conclusione dell’ultima campagna di scavi, la quarta, per l’esattezza a partire dal 1990, da quando furono rinvenute le prime testimonianze e i primi segni documentari di un insediamento preistorico risalente a ottomila anni fa, sul pianoro della lama Lamasinata, a Modugno.
In questo antico solco erosivo, uno dei tanti che caratterizza la Murgia barese, attraverso un percorso lungo e tortuoso, hanno camminato i nostri più lontani antenati. Qualcuno pittorescamente le ha definite le autostrade del neolitico: le lame erano, infatti, vie di collegamento rapide tra l’entroterra mangiano e il mare, adatte alla sopravvivenza, in un periodo in cui non doveva essere molto facile trovare cibo. Le lame offrivano tutto quello di cui l’uomo abbisognava: le grotte come alloggi per affrontare l’inverno, l’acqua, indispensabile alla vita, il cibo, sia sotto forma di abbondante vegetazione, sia come selvaggina. Tutto questo ha fatto sì che quegli uomini potessero divenire stanziali, non più nomadi, e quindi, più abili in alcune occupazioni. Prove concrete sicuramente sono le migliaia di reperti ritrovati durante la campagna di scavi, primi fra tutti i frammenti ceramici.
L’importanza scientifica dell’ultimo scavo è da attribuire soprattutto all’evidenziazione di nuclei abitativi più recenti, finora poco noti, e precisamente alle caratteristiche planimetriche e strutturali della capanna numero 2, così come è stata contrassegnata dai ricercatori, si sono potuti definire con certezza i punti d’appoggio dei pali verticali, portanti le strutture in elevato; si è potuto delimitare, ai margini della capanna, una larga fossa con una sepoltura monumentale, di cui è stato fatto il calco, con resti di attività riferibili al momento della sepoltura stessa.
La comunità neolitica antica che viveva sul pianoro di Balsignano abitava capanne di forma rettangolare allungata, distanti Luna dall’altra circa venti metri. Era dedita all’agricoltura e all’allevamento, soprattutto di ovi-caprini, oltre che alla caccia, nei vicini circondari boschivi, e alla pesca, nonostante la distanza dell’insediamento dal mare. Si può affermare tutto questo sulla base del rinvenimento di resti faunistici: una testa molto ben conservata di cervide o capriolo; ossa di animali erbivori, decorazioni fatte sulla ceramica per mezzo di conchiglie. C’era infatti, fra quegli uomini, anche una categoria di artigiani vasai, che lavorava la ceramica impressa, data la presenza di pezzi di vasi, olle, grandi recipienti adibiti alla conservazione delle granaglie, sistemati in piccole conche o nicchie ricavate nella pavimentazione di lastre calcaree. I recipienti risultano invece essere stati decorati, a bande, o con l’orlo marcato. Sono stati rinvenuti pezzi di intonaco argilloso delle capanne, che si è conservato molto bene perché è concotto, cioè bruciato: su di essi si legge l’impronta dell’incannucciato. Ha suscitato una certa sorpresa il ritrovamento di materie prime, quali i pezzi di selce, di provenienza garganica, o i frammenti di ossidiana, sicuramente originaria dell’isola di Lipari (Sicilia), o, ancora, i cocci ceramici dipinti di rosso, di fattura raffinata, forse non appartenenti alla produzione del nostro territorio. Per quest’ultimo procedimento, non avendo finora rinvenuto alcuna prova scientifica, per esempio un forno adibito alla loro cottura, viene fatta l’ipotesi che la comunità neolitica di Balsignano si dedicasse ad attività di scambi e relazioni con altre comunità stabili, site negli insediamenti della fascia litoranea, o anche più distante.
Molto evoluto e assai interessante dal punto di vista scientifico risulta l’abitato antico del pianoro di Lama Lamasinata. Ancora più degli esiti degli scavi precedenti, quest’ultimo ha portato a certezze nel campo archeologico, proponendo datazioni più recenti per alcuni reperti, e nuove ipotesi, invece, per altri ritrovamenti. Ci si riferisce, ad esempio, alla struttura circolare di lastre di pietre calcaree, più vicina al vialetto di accesso al sito. Un’economia di risorse e di energie potrebbe aver imposto a quegli uomini una certa attività di spoglio di costruzioni precedenti, per il riutilizzo (oggi diremmo riciclaggio), del materiale calcareo nella costruzione della capanna risalente al periodo più recente. A suffragio di questa ipotesi potrebbe essere esibita la presenza della sepoltura dell’uomo di 27 anni, alto 1 metro e 70, databile nel neolitico medio, la cui tomba è lastricata di pietre, ricavate dalla capanna più antica: sicuramente una persona di rango più elevato delle altre, tenuta in grande considerazione, un monumento insomma.
L’ultima campagna di scavo, finanziata dal Comune di Modugno, ha acceso un interesse davvero entusiastico nelle scuole modugnesi, poiché tutti gli alunni impegnati nel Progetto sulla frequentazione umana nel periodo neolitico, nello scorso anno scolastico, del quale è stato riferito sulla rivista, (Nuovi Orientamenti, N. 104, agosto 2002), hanno partecipato, nel periodo ottobre – novembre di questo nuovo anno scolastico, alle visite sul sito, organizzate dall’Assessorato alla Pubblica Istruzione. E’ statala naturale conclusione del lavoro didattico, per quel che riguarda i ragazzi, mentre non è affatto conclusa la vicenda dell’insediamento neolitico di Balsignano, il cui notevole interesse scientifico esige la definitiva acquisizione da parte dell’Amministrazione Comunale, come è stato più volte sollecitato da Francesca Radina, che cura le ricerche nell’area archeologica, e dalla Rivista Nuovi Orientamenti, che ha sempre posto come priorità assoluta l’acquisizione pubblica del terreno al patrimonio culturale modugnese, per una sua conservazione idonea e stabile. L’acquisizione pubblica dell’area è il primo passo per la creazione del Parco archeologico e ambientale di Balsignano; di esso faranno parte, oltre al sito neolitico, la Lama Lamasinata e il Casale fortificato medievale, ubicato a breve distanza. Potremmo avere finalmente, come auspica Francesca Radina, che ha riservato un’attenzione speciale ad alunni e persone in visita al sito, un’area attrezzata con una riserva di dati archeologici.
L’intera zona si avvale, inoltre, di un rigoglioso paesaggio naturale, boschetti di querce e macchia mediterranea, per fortuna quasi del tutto intatto, che contribuisce non poco a donare suggestioni profonde a chi desidera immergersi in un passato ancora da scoprire.

Rivive Balsignano sulla scena

Anno XXIV N. 105 Ottobre 2002
Cristina Macina

Fortunatamente, la sera di venerdì 13 settembre il maltempo dell’ultimo scorcio della piovosa estate appena trascorsa ha concesso una tregua ed ha così reso possibile la rappresentazione de L’ultimo di Balsignano, presso il casale fortificato medievale sito alle porte di Modugno. L’azione drammatica è nata dalla collaborazione tra Nuovi Orientamenti e l’associazione La pecora nera-, l’unione tra storia e teatro ha dato vita ad un dramma storico che ha piacevolmente reso noti alcuni fra gli episodi più rilevanti della lunga vita di Balsignano. Infatti, attraverso la storia dei protagonisti, sei attori senza raffinata arte, né tantomeno parte, che si fingono di essere diretti alla regia corte napoletana, prende corpo dapprima sullo sfondo, poi in primo piano, il vero argomento dell’opera: l’antico casale, la distruzione, l’abbandono, il degrado.
Quando la compagnia di attori, guidata da un generoso quanto poco produttivo capocomico (interpretato da Franco Ferrante) giunge a Balsignano con l’idea di passare la notte in questo luogo sconosciuto e a prima vista abbandonato, si imbatte, appunto, nell’ultimo abitante di Balsignano, (sulla scena Antonio Pugliese). La sua presenza, annunciata da reticenti e a tratti ostili dialoghi con gli attori della compagnia, rivela un senso dell’ospitalità antico, fatto di una gentilezza timida e ritrosa. Si tratta di un anziano signore, cresciuto tra le mura di Balsignano quando esso era un ricco centro, che non ha avuto cuore di abbandonare la sua antica dimora, nemmeno dopo la sua distruzione. Innamorato devoto delia terra circostante, generosa ospite sempre pronta a fornire olio e frutta a chi si avvicinasse, l’ultimo di Balsignano ha atteso l’arrivo di qualcuno che ponesse fine alla pericolosa dimenticanza che ha avvolto il casale. Così, in cambio di vitto e alloggio, ottiene dalla compagnia una promessa: almeno per una sera nel casale sarebbe tornata la gente per assistere alla tragedia che avrebbe messo in scena la recente storia di Balsignano. Sfortunatamente, egli non vedrà realizzato il suo più grande desiderio, perché stroncato da una morte annunciata, ma lascia sereno la sua dimora: ha infatti trovato nei giovani attori chi possa vegliare fedele sul casale per la cui ricostruzione egli ha, peraltro, devoluto una cospicua somma di denaro accumulata durante la sua vita. Allegoria del lungo abbandono che ancora soffre Balsignano, dell’inerzia spesso dimostrata dagli enti pubblici, la delicata rappresentazione curata da Michele Bia ha restituito al casale l’antica vitalità, almeno per una sera, e, mescendo l’utile al dolce, ha contribuito a rendere noti alcuni momenti significativi della sua storia. Gli attori (sulla scena anche Annalisa Pellecchia, Nicola Giustino, Floriana Govovi, Mimma Martino, Giulio Bruno)) hanno interpretato con efficacia il loro processo di mutamento davanti alla saggezza dell’ultimo balsignanese, che spinge uno della compagnia a superare generosamente le proprie debolezze e a riportare a Balsignano l’eredità del vecchio da lui rubata. La dedizione dell’ultimo abitante di Balsignano ad una causa non individuale diventa monito ed insegnamento per i giovani nella storia, … speriamo che lo sia anche nella nostra realtà.

Una Madonna difficilmente recuperabile

Anno XXIV N. 105 Ottobre 2002
Rossella Romita
COLLOCAZIONE: Chiesa di S. Maria di Costantinopoli, navata settentrionale, parete sinistra.
OGGETTO: dipinto.
SOGGETTO: Madonna in trono con il Bambino.
CRONOLOGIA: XIV secolo.
AUTORE: anonimo frescante meridionale.
MATERIA E TECNICA: affresco
STATO DI CONSERVAZIONE: cattivo.
RESTAURI: A cura della Soprintendenza ai Beni AA.AA. AA. e SS. della Puglia,1999-2000. Intervento di consolidamento e fissaggio dell’intonaco dipinto al supporto murario.

DESCRIZIONE: La Vergine, seduta in trono, regge il Bambino che, in piedi sulle sue ginocchia, le cinge il collo con il braccio destro e accosta la guancia al viso della madre, che indica con la mano sinistra. Bimbo indossa una veste bianca, decorata da rosette quadripetali rosse stilizzate, e motivi astratti di colore blu. Ambedue hanno nimbi dorati pedinati. Del trono su cui siede la Vergine è visibile il bracciolo sinistro e il basamento, resi con un accenno alla profondità; un drappo bianco fa da schienale. La scena è inscritta in una triplice cornice nei colori rosso, bianco e blu; sul bordo superiore, la fascia centrale bianca è campita da un motivo a rombi concentrici nei colori rosso e blu, uguale a quella già vista nella chiesa-cripta del Santuario della Madonna della Grotta, presso Modugno.
NOTIZIE STORICO- CRITICHE:

L’affresco raffigura la Vergine secondo una variante della “Vierge de Tendesse”, che china teneramente il capo verso il Bambino, la cui mano è protesa a cingere il collo della madre. È questo un tipo iconografico piuttosto diffuso, che si rifà all’antico modello della “Glyko-philousa”. Il pessimo stato di conservazione non permette una più ampia lettura dei caratteri stilistici dell’affresco, che comunque, per gli elementi indicati (vedi l’accenno alla profondità, eco dell’esperienza post-giottesca) è ascrivibile al tardo XIV secolo. L’affresco è venuto alla luce durante i recenti restauri.

Per un progetto di riuso di Balsignano

Anno XXIV N. 105 Ottobre 2002
Michele Trentadue
Pubblichiamo volentieri questa ipotesi di riuso di Balsignano di Michele Trentadue, giovane studente universitario di Ingegneria, che ha il merito di guardate anche a fortunate esperienze europee. Invitiamo i nostri lettori ad intervenire sull’argomento, esprimendo le loro opinioni.

Sebbene ogni possibile ipotesi per il riuso del complesso medievale di Balsignano debba anzitutto attendere la conclusione delle operazioni di restauro, credo sia giusto pensare alla maniera più razionale con cui sfruttare l’antico casale sottraendolo all’attuale condizione di isolamento. Balsignano infatti non solo risulta isolato tra gli ulivi delle campagne che separano Modugno da Bitritto, ma è anche innegabilmente decontestualizzato rispetto ad una situazione di squilibrati e non troppo corretti rapporti tra centri urbani e area rurale. Insomma, a mio modesto parere, nell’attuale situazione, Balsignano “galleggia” in una dimensione atemporale, oserei dire quasi in un contesto astratto. Tuttavia tale struttura continua ad esercitare un certo fascino, che può esser compreso solo da chi si reca in loco.
Balsignano, seppur in modo discontinuo, ha già ripreso ad esser utilizzato come luogo adibito a concerti, rappresentazioni teatrali, ed altre simili attività culturali e di svago. Comunque sia, limitare l’uso di Balsignano a semplice palcoscenico mi pare troppo restrittivo: sarebbe come, seppure ad un livello notevolmente inferiore, utilizzare i rinvenimenti di Pompei solo per le riprese di qualche film sui Romani. Inoltre Balsignano non può esser soltanto un teatro anche perché storicamente non è mai stato questo il suo segno distintivo. A questo punto si fa strada in maniera sempre più forte l’idea di un “progetto di valorizzazione che ne prevede una sorta di musealizzazione all’aperto, considerato lo stato del luogo, ben integrato nell’ambiente naturale della lama, non lontano dalla città e facilmente raggiungibile di qui forse anche con una passeggiata a piedi o in bicicletta”.
Un museo all’aperto, senza dubbio, rivaluta la cultura contadina nel suo paesaggio. Nel Trentino sono stati effettuati interventi di restauro, coordinati dal professor Ferrari, dell’Università degli Studi di Trento, per valorizzare edifici storici con il riuscito scopo di realizzare percorsi rurali di interesse turistico, ricreativo e sportivo nella parte alta del Sentiero Etnografico Rio Caino nella Valle delle Chiese nei pressi di Cimego (Trentino occidentale).
Balsignano deve tornare a vivere non in maniera isolata ma all’interno di un itinerario artistico-culturale che non si limiti al semplice museo open-air; ma possa anche, come nell’esempio del Trentino, attrarre i più profani configurandosi come luogo ricreativo, offrendo la possibilità di differenti attività di svago, prima su tutte la semplice “passeggiata della domenica mattina all’aria aperta”.
Ho parlato di itinerario proprio perché il complesso medievale di Balsignano non è l’unico segno storico nell’ambiente bucolico del territorio modugnese: infatti nei pressi del casale è presente anche il parco archeologico di età neolitica. Dunque, si può pensare ad una sistemazione territoriale la cui idea fondamentale sia quella di creare un parco contadino che mostri la spontaneità della coltivazione di questi terreni ricchi di ulivi, di reperti archeologici, di antiche costruzioni contadine e anche, dulcis in fundo, di affascinantissime architetture medievali.
Nel 1969 in Baviera fu fondato il museo open-air di Massing che dapprima avrebbe dovuto solamente racchiudere i resti più interessanti della valle del Rott, e cioè le sue case di legno, gli armadi dipinti e le cassapanche, le ceramiche del Kroning, ricami e lavori al tornio. Adesso però è la realtà della vita quotidiana in campagna a impregnare il museo, che si è ampliato di casale in casale: in una fattoria rivive il mondo dei piccoli contadini, in un’altra esplode il fascino della tecnica: vi si trovano pozzi a carrucola, trattori, stalle con coperture a volta, vasi smaltati, scodelle e secchi, frutteti, linee di confine, siepi e viali. Tutto appare così com’era una volta e come, in quel luogo, continua ad essere.
Nel museo open-air di Massing gli artigiani presentano le loro opere. Mercati e feste portano musica e gente allegra. Giardini, campi e prati risvegliano ricordi dell’infanzia ormai smarriti, mostre speciali intrattengono ed arricchiscono. Gli eventi più importanti dell’anno per il museo sono il mercato di primavera (Lenzmarkt), il solstizio d’estate (Sonnwend) e la sagra della raccolta del grano (Arntbierfesf).
Sempre in Baviera, a mille metri sul livello del mare, nascosto dietro i boschi e le montagne del parco nazionale, vicinissimo alla frontiera boema, il passato non è passato: il museo open-air di Finsterau raggruppa case coloniche, intere fattorie, una fucina, una locanda. Sotto il cielo, all’aria aperta, non si offre allo spettatore nessuno spettacolo paradisiaco, nessuno spettacolo idilliaco ma solo (scusate se è poco) la realtà vera della vita quotidiana dei contadini e degli operai della foresta bavarese. Quella vera realtà che oggi probabilmente non esiste più. Quelle persone guardavano un bastone di rose fiorito, un fazzoletto colorato tessuto a mano con uno sguardo diverso da quello che potrebbe essere il nostro. Perché si possa tornare a vedere con i loro occhi, ogni cosa nel museo Finsterau è stata posta nell’’ambiente originale: il piccolo e il grande, il nuovo e il rappezzato, il grossolano e il bello. E tutto ha conservato il suo vero volto, onde si possono notare le tracce del tempo: le maniglie levigate, le soglie consumate, il rattoppo sulla giacca del taglialegna. Dalla locanda “Ehrn” giunge il profumo dei Krapfen e del caffè, di semplici e sostanziose ricette di campagna.
Sinceramente credo che questi due esempi possano essere assolutamente considerati come modelli a cui guardare per trarre ispirazione, dal momento che noi potremmo non solo creare un parco contadino, che emuli in Terra di Bari l’organizzazione degli esempi tedeschi, ma potremmo anche realizzare qualcosa che a livello culturale possegga un respiro molto più forte. Ed allora, forse, è opportuno che io proponga qualcosa di più specifico per la realizzazione di questo parco contadino.
Anzitutto l’estensione: esso deve iniziare dove finisce il tappeto urbano di Modugno e cioè nella periferia residenziale di via Bitritto e deve concludersi (per il momento) in loco Basiliniano.
L’antico casale con la bella chiesa di San Felice, diventerebbe il capolinea di ogni tipo di percorso possibile da effettuarsi all’interno del parco: 1) passeggiata disinteressata (intesa come semplice svago), da soli o in compagnia, allo scopo di trascorrere qualche momento lontani dal cemento e dallo smog; 2) itinerario artistico e storico che mostri i rinvenimenti archeologici del neolitico nonché il famoso insediamento medievale; 3) percorso socio-culturale verso le origini della vita contadina e attraverso gli alberi d’ulivo per ritrovare intatto uno stile di vita che “forse” non esiste più; 4) camminata a sfondo economico-commerciale durante la quale il visitatore possa acquistare, e dunque assaggiare, tutto il meglio dei prodotti tipici che i contadini della nostra terra potranno esporre e vendere tutto l’anno (in tale maniera si potrà rendere ancora più tenace questo viaggio a ritroso nel tempo abbinando gli antichi sapori e gli antichi odori della Terra di Bari all’esperienza della natura, alla riscoperta di antichi reperti o di antiche architetture, alla vista di case contadine tradizionali e a tutte le altre cose che questo parco contadino offrirebbe).
Tale parco contadino deve svilupparsi seguendo il tracciato della lama, conferendo così alla propria forma anche un valore semantico perché la lama “Lamasinata” allinea su di sé diversi segni dall’alto valore storico, artistico e culturale.
Dopo aver chiarito l’estensione, passo alla descrizione dell’organizzazione del parco. Anzitutto esso deve munirsi di due ingressi: uno al suo inizio (in terra modugnese, nella zona residenziale di via Bitritto), l’altro alla sua conclusione e cioè dove attualmente si trova l’ingresso del complesso di Balsignano, sulla strada provinciale Modugno-Bitritto.
In prossimità di ciascun ingresso devono esser realizzati dei parcheggi perché non sarà possibile accedere all’interno del parco con auto o motorini, ma solamente a piedi o in bici.
È fondamentale la realizzazione dei due ingressi per un paio di validi motivi. Per prima cosa, l’ingresso in via Bitritto dev’essere realizzato perché gli abitanti di Modugno non debbano percorrere troppa strada in auto per raggiungere l’altro accesso al parco, situato a 3 km di distanza; in questo modo, sembrerà loro di possedere un vero parco contadino proprio all’interno dello stesso tracciato urbano. In seconda istanza è necessario anche l’ingresso posto sulla strada provinciale per due ragioni: 1) avvicinare un ingresso del parco al limitrofo centro urbano di Bitritto sarebbe un’operazione che funzionerebbe come stimolante invito anche per gli abitanti di un altro comune (perché si possano superare le ignoranti fierezze e rivendicazioni campanilistiche); 2) ho precedentemente attribuito al complesso di Balsignano la funzione di “capolinea di ogni tipo di percorso possibile all’interno del parco”, ma è necessario anche un ingresso nei pressi dello stesso casale poiché, non essendo possibile la visita con alcun mezzo motorizzato, bisogna agevolare e preservare gli interessi di coloro i quali siano interessati all’esplorazione del solo insediamento medievale, e non dell’intero parco.
Il parco al suo interno deve essere dotato di più tracciati, più percorsi. Questo tipo di sistemazione interna non solo avrebbe la funzione di agevolare il traffico di visitatori, ma potrebbe anche avere lo scopo di differenziare in maniera fisica i diversi percorsi tematici. Per prima cosa dovrà esser realizzata una pista ciclabile, facendo in modo che questa sorta di museo all’aperto possa attrarre anche gli appassionati di ciclismo, dal momento che la conformazione morfologica del terreno, non sempre pianeggiante, offre le possibilità di divertirsi sulle due ruote. Naturalmente non sarà vietato circolare sugli altri tracciati in bici.
Un altro percorso, quello a sfondo prettamente storico-culturale, dovrà allineare sul suo tragitto tutti i vari elementi che siano in grado di destare interesse; sarebbe d’uopo l’impiego di guide turistiche che sappiano illustrare e spiegare ai visitatori quanto c’è di più interessante. Penso che sarebbe giusto munire il parco di un servizio di bus-navetta (per i più anziani), magari con a bordo una guida che segua il gruppo nella visita.
Per l’esposizione dei reperti archeologici del neolitico, il parco si deve dotare di adeguate strutture, luoghi coperti e convenientemente attrezzati. Vorrei soffermarmi sulla natura delle strutture che ospiteranno tali esposizioni. Esse non devono assolutamente assomigliare agli stand fieristici o a quelle strutture solitamente montate per ospitare mostre di vario genere: divisori leggeri realizzati avvitando delle lastre di cartongesso sui lati di un telaio montato in opera in profilati leggeri di acciaio. L’idea di una struttura che richiami l’allestimento provvisorio, il “monto oggi, smonto domani” è sbagliata perché il parco contadino deve cristallizzare dentro sé la natura della campagna pugliese, la naturale vita contadina, nonché la sua architettura naturalistica. L’architettura delle campagne pugliesi è sempre stata intesa come segno, come profonda e permanente testimonianza della presenza umana nelle campagne. L’architettura delle campagne pugliesi (dal trullo alla casa del colono modugnese) non ha mai avuto un carattere effimero, ma ne ha sempre avuto uno perenne. Questa architettura non è mai stata realizzata con prodotti prefabbricati dell’industria, ma ha sempre conosciuto nella sua tecnica, rudimentale e raffinata allo stesso tempo, l’utilizzo di soli materiali della natura del luogo (quasi esclusivamente pietre calcaree).
Introdurre presenze architettoniche che suggeriscano l’idea della temporalità, di un allestimento momentaneo, è sbagliato perché questo non solo tradirebbe l’idea fondante del parco contadino (e cioè del luogo dove tutto è rimasto come era una volta) ma per giunta stonerebbe con violento stridore al cospetto dello stesso complesso di Balsignano, il quale, scusate se è poco, si mantiene in piedi da più di mille anni.
E allora, come realizzare queste strutture? Mi sembra ovvio che qualsiasi tipo di struttura architettonica sarà realizzata nel parco debba per forza rispettare la tecnica tradizionale del contesto territoriale in cui sorge. Ritengo poi che il parco debba munirsi di altre strutture architettoniche, oltre alla sala per esposizione. Le varie, tipologie di locali a cui mi sto riferendo sono le seguenti: 1) locali per mostrare i tradizionali attrezzi da lavoro dei contadini; 2) locali ad uso deposito, a disposizione dei contadini che vorranno esporre i loro prodotti per la vendita e per far assaggiare i prodotti naturai e genuini della nostra terra; 3) locali più ampi anche dotati di cucine per poter allestire periodicamente sagre o più semplicemente per esporre piatti e ricette tradizionali che vivono nei segreti culinari di anziane massaie, uniche persone in grado di far rivivere il tempo che è stato attraverso odore e sapori.
Tutte queste architetture potranno essere realizzate a partire da restauri effettuabili su alcuni ruderi di antiche case contadine presenti sulla strada vecchia che da Modugno conduce a Balsignano. Tale strada vecchia può esser presa in considerazione come percorso possibile all’interno del parco. Probabilmente quelle strutture in conci di pietra fatiscenti che ho visto dislocate sulla strada vecchia potrebbero non bastare per le diverse necessità che sopra ho descritto. Allora si tratterebbe di costruire ex novo alcuni edifici.
Gli edifici costruiti con le tecniche tradizionali, oltre a rappresentare un momento della tradizione, possono essere il veicolo per conservare metodi e tecniche costruttive in via di estinzione che in queste occasioni possono essere insegnate alle giovani maestranze e divenire prassi negli interventi di recupero edilizio sul patrimonio diffuso.
Il museo open-air.; fatto anche di repliche, si configura quindi come via sostenibile per scongiurare quegli interventi invasivi che sempre più spesso modificano in maniera radicale gli edifici della tradizione facendo perdere anche ai luoghi la loro connotazione. Questo modo di operare oggi è molto sentito in Europa e la tendenza alla ricostruzione e all’addestramento dei giovani carpentieri è molto forte, tanto che la Comunità Europea ha finanziato, nell’ambito del programma Cultura, il progetto dal titolo «Wooden handwork/ Wooden carpentry: European restoration sites».
Tutto questo perché, come è giusto interessarsi affinché non scompaia un insediamento architettonico medievale, è parimenti giusto impegnarsi affinché non scompaia una tecnica di costruzione architettonica che ormai è da considerarsi storica.
Tornando alla descrizione del museo open-air.; vorrei aggiungere una breve considerazione. Mi scuso perché forse questa considerazione non è perfettamente pertinente, ma desidero farla lo stesso. Più che di una considerazione, si tratta di un encomio, di un tributo di lode nei confronti di ciò che da sempre io considero come una vera e propria opera d’arte; un’opera d’arte in cui all’essere umano spetta poco merito poiché il merito è tutto della natura: sto parlando degli alberi d’ulivo.
Ogni museo-giardino contiene tradizionalmente delle sculture, dai Giardini di Boboli ai più moderni parchi texani in cui si esibiscono straordinarie opere scultoree. Il museo open-air, da me definito come parco contadino, avrà anch’esso le sue sculture: esse saranno proprio gli alberi d’ulivo. Si dovrà dar valore, importanza monumentale, ai tronchi dalle forme espressionistiche, alle chiome pittoresche e astratte, alla metamorfica natura di questi “personaggi drammatici”.
La cultura dell’astrazione, che ha rivoluzionato la storia dell’arte e dell’estetica, ha insegnato ad apprezzare le forme artistiche dell’Informale. La metamorfosi espressionista degli oggetti e dei soggetti, da Kokoschka a Bacon, ha insegnato al nostro intelletto ad apprezzare la drammaticità esistenzialista delle deformazioni. La violenza e la memoria inferte alla materia come “messa in forma”, da Dubuffet a Burri, hanno insegnato ai nostri cinque sensi ad apprezzare la fenomenologia del Caos. Sulla base di queste esperienze (intimo patrimonio culturale di chi ama l’arte) non si può negare l’immagine spettacolare dell’arte profonda, splendida e segreta di un albero di ulivo.
Poi, in fin dei conti, il parco contadino è espressione della natura, della natura mediterranea, e come suggerisce lo storico Fernand Braudel: “Il Mediterraneo finisce là dove finisce l’ulivo”.
Insomma, terminata questa forse non inutile digressione sull’arte delle sculture naturali che popoleranno il parco, torno al nostro amato complesso medievale di Balsignano.
Sembra ormai chiaro che in questo parco contadino, in questo museo contadino, in questo museo open-air.; Balsignano trova un logico reinserimento in un itinerario politematico che è in grado di valorizzare anche il suo antico significato. Per prima cosa, inserendolo in un museo che tratta come tema fondamentale la produzione agricola modugnese, si restituisce a Balsignano il suo segno storico, che è quello di luogo di produzione rurale collettiva in cui si sono incrociate e fuse sul piano della vita quotidiana le esperienze di migliaia di uomini
In secondo luogo, rendendo Balsignano il capolinea o, se gradite, il crocevia principale di tutti i possibili percorsi del parco, si fa rivivere il significato che esso aveva nel medioevo all’interno della maglia viaria, quando era posto in posizione dominante e in un’area dotata di una diramata viabilità locale, nonché di una arteria stradale a dimensione territoriale, la “mulattiera”, che dai tempi antichi collegava Butuntum a Caelia passando per Modugno, con un percorso interno alternativo al tracciato principale della via Traiana.
Ho così terminato la mia ipotesi e non mi rimane altro da fare che effettuare le ultime osservazioni. Il parco contadino, in qualità di museo open-air, offrirà le seguenti possibilità: 1) osservare la natura della compagna modugnese (soprattutto la spettacolare natura degli alberi d’ulivo); 2) osservare l’organizzazione del lavoro in campagna (gli strumenti, i protagonisti, i raccolti, le piccole come le grandi cose); 3) gustare gli antichi sapori, fondere i profumi della campagna ai profumi di locali pietanze; 4) passeggiare a piedi o in bici, con amici, con il proprio partner, con la famiglia, da soli o con un cane, lontani dal caos e dallo squallore del centro urbano; 5) osservare i rinvenimenti archeologici del neolitico; 6) visitare l’insediamento medievale di Balsignano.
Inoltre nel museo, dove la vita contadina è la protagonista, dove il passato non passa mai, verranno periodicamente organizzate feste, sagre, concerti, rappresentazioni teatrali e tutto ciò che rappresenti il folklore e la tradizione di questa terra. Solo una cosa ho volutamente tralasciato: il discorso economico. Dovrà essere gratuito o a pagamento l’ingresso all ‘open-air museo? E se sarà a pagamento, quale dovrà essere il costo del ticket? Questo non posso essere io a stabilirlo. Per ciò che concerne il nome da dare a tale intervento penso che il mio personale «Parco contadino Balsignano» suoni piuttosto bene.
In conclusione, al di là dell’intervento, che mira e reinserire Balsignano all’interno di un itinerario politematico che ne determini un utile riuso e finalmente lo consegni ad una dimensione più consona al suo antico significato che non l’attuale condizione di astrazione quasi completa, spero abbia valore in questa ipotesi da me avanzata l’importanza che deve assumere nella società contemporanea e del futuro il progetto di sistemazione viaria e di valorizzazione territoriale in ambito rurale e non solo urbano. È importanza riuscire a valorizzare non solamente le aree interessate dal reticolato urbano, ma anche quelle aree che, con una densità di popolazione notevolmente inferiore, sono dimenticate e destinate alla sola attività agricola e tante volte sono bellissime e meritano pertanto di essere rivalutate.
Forse questa mia idea, che rivendica l’importanza di zone non edificate e non edificabili (ma destinate ai soli contadini) attraverso sistemazioni territoriali sul modello del parco contadino, potrebbe sembrare un’utopia. Sembrerebbe un’utopia soprattutto nel sud d’Italia. Ma, come scrisse Lewis Mumford in The Story of Utopias, “una carta del mondo in cui non figura l’utopia non merita neppure un’occhiata”.

Omaggio a Balsignano (e a Bruscella) su una rivista francesce

Anno XXIV N. 105 Ottobre 2002
Serafino Corriero
La rivista francese GEO dedica un servizio speciale ai “tesori abbandonati” del Sud d’Italia, fra i quali, in territorio di Modugno, la chiesa di S. Felice in Balsignano e la masseria Cafarelli.

Sul numero 268 di giugno 2001 la rivista mensile GEO, edita a Parigi e a noi segnalata dal nostro collaboratore francese Michel Bon, presenta ai suoi lettori una severa inchiesta sul ricco patrimonio artistico dell’Italia meridionale, in gran parte abbandonato all’incuria e al degrado.
Attraverso una lunga e accurata indagine, l’inviata Eva Sivadjian ed il fotografo Derek Hudson documentano l’infelice destino di ville, chiese e sculture che nel Sud d’Italia, privo di mezzi, cadono nell’abbandono. La copertina di queste pagine è dedicata al “villaggio-fantasma” di Craco, in provincia di Matera, completamente abbandonato dai suoi abitanti dal 1970, quando la collina sulla quale sorge franò trascinando nella rovina i suoi tesori di storia e di arte. Sulle cause di questo abbandono, la giornalista interroga quindi Attilio Caruso, responsabile regionale lucano della FAI, la Fondazione italiana per la preservatone del patrimonio architettonico nazionale, il quale, dopo aver indicato le diverse cause di questo stato di cose, alcune storiche (smottamenti, terremoti, carestie, guerre dinastiche, invasioni), altre recenti (disoccupatone ed emigratone), lamenta la mancanza di risorse adeguate per la tutela e il recupero dei tanti (troppi) siti di particolare valore storico, ambientale o artistico. E, analogamente, anche le varie Soprintendenze istituite per la tutela di questo vastissimo patrimonio ammettono di non essere in grado di condurre campagne sistematiche di valorizzazione di questi siti, essendo appena in grado di affrontare solo le situazioni più gravi ed urgenti. E qui, l’inviata di GEO introduce i suoi riferimenti al territorio di Modugno. Ne riportiamo sotto il testo in francese e la traduzione italiana. Alle citazioni modugnesi (sulla figura di Cafariello, vedi Nuovi Orientamenti, n. 86/1988, pp. 18-21) seguono poi altre segnalazioni da Basilicata, Calabria e Campania: “dappertutto, lo stesso odore di muffa fuoriesce dalle belle ville padronali con i balconi arrugginiti e le porte bloccate dalla terra e dalle piante selvatiche”. Soltanto Matera si è salvata da questo disastro, grazie alla tutela dell’Unesco; altrove, “vestigia di un valore inestimabile sono minacciate di rovina”, e non solo per colpa di cause naturali o di errati interventi sul territorio, ma anche perché «a differenza dei nostri nonni e dei nostri genitori, noi non siamo stati capaci di trasmettere ai nostri figli una cosa essenziale: l’amore e il rispetto dell’inestimabile bene comune che stiamo distruggendo».

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