A Modugno non c’è altro luogo, come il cappellone del Santissimo Sacramento della Chiesa Matrice, che, pur modesto per dimensioni, abbia una così ricca concentrazione di arte e di bellezza, di cui sono autori importanti pittori e assai qualificate maestranze.
Già l’alta cancellata e i due pezzi di balaustra, impreziosita da marmi istoriati e intarsiati, distinguendo e delimitando l’ambiente, sembrano segnalarlo come luogo del tutto particolare. Infatti, tre scritte, – sulle quali richiama la mia attenzione Sofia, la mia nipotina più piccola- la prima, a destra, Venite e comedite (Venite e mangiate insieme), la seconda a sinistra, Venite et bibite vinum meum, (Venite e bevete il mio vino/sangue), e la terza in una sorta di cartiglio al centro dell’arco che sormonta l’altare, Salutaris Ostia (l’Ostia della salvezza), riportandoci al mistero del pane e del vino che si fanno Corpo e Sangue di Cristo, ci avvertono che entriamo nel luogo del “Santissimo Sacramento”, o semplicemente del “Santissimo”, ovvero nel luogo dedicato al “sacramento dei sacramenti”, poiché esso, rinnovando la presenza di Cristo tramite l’Ostia salutaris, rende stabile e continuo lo stato di grazia, al quale tendono gli altri sacramenti, che scandiscono i momenti di formazione del cristiano nella sua vita terrena (battesimo, confessione, cresima, ecc).
A Modugno, però, il culto del Santissimo Sacramento non si sviluppò, come accadde altrove, su impulso del Concilio di Trento, che, confutando le tesi di Lutero, fissò che “nel divino sacramento della Santa Eucarestia, dopo la consacrazione del pane e del vino, è contenuto veramente, realmente e sostanzialmente […] il nostro signore Gesù Cristo, vero Dio e vero uomo” (Sessione XIII, 11 ottobre 1551). A Modugno il culto del Santissimo Sacramento – mi dice don Nicola Colatorti – è attestato ben prima da alcuni documenti presenti nell’Archivio Capitolare che lo fanno risalire agli inizi del Quattrocento.
Entrando nel Santissimo, si è quasi tentati di non posare i piedi sul pavimento maiolicato del Seicento, che nei punti di più intenso calpestìo è, ahimè, piuttosto usurato. A destra, fra due angeli, opere risalenti al 1939 dell’affrescatore Nicola Colonna, si trova l’antico organo del 1723; a sinistra, c’è un “Cristo Morto” di buona fattura, di cui probabilmente sono autori i maestri cartapestai salentini. Sopra il Cristo la tela dell’Ultima Cena, opera prodotta da Giuseppe Montrone nel 1905.
Ma è sollevando lo sguardo che si è rapiti da colori, figure e tematiche che sospingono al ripiegamento interiore e a riflettere sui grandi temi della condizione umana e del suo rapporto con la trascendenza.
E, innanzitutto, si è colpiti dal maestoso affresco della cupola, che
sembra volersi smaterializzare e raggiungere il Cielo per congiungere le sue figure alle persone di riferimento, che lì vivono in uno stato di beatitudine eterna. Al centro dominano le tre persone della Trinità, che con atteggiamento solenne proclamano e incoronano la Madonna regina dell’intera Chiesa trionfante. Ad una tale incoronazione partecipano gli animi più nobili della storia del Cristianesimo: immediatamente, alla destra della Vergine sono disposti i 12 apostoli, seguiti poi dai Santi, fra i quali si riconoscono San Francesco d’Assisi e San Francesco da Paola, quasi contigui ai martiri, che hanno preferito la soppressione della loro vita terrena in vista di quella eterna; seguono poi le Vergini, fra le quali emerge S. Caterina d’Alessandria, dal grande eloquio filosofico, che la ruota dentata del supplizio a cui fu condannata non riuscì a stroncare, per cui si rese necessaria la sua decapitazione; infine, un gruppo di venerandi profeti, disposti alla sinistra della Vergine, chiude e conclude il grandioso affresco, che Vito Antonio De Filippis terminò nel 1705.
Ai lati della cupola, tre lunettoni ospitano altrettante tele, che, con scene assunte dall’Antico Testamento, mostrano l’onnipotenza di Dio, senza della quale non potrebbe esserci la Chiesa trionfante.
Sul fondo, con colori baluginanti, che danno già essi il senso della tragedia, il Mar Rosso si apre e inghiotte l’armata del faraone: a nulla serve il recalcitrare dei cavalli o il loro tentativo di cambiare direzione, poiché la potenza che Dio conferisce al Mar Rosso sovrasta e fagogita tutto ciò che è alla sua portata.
Nel lunettone di sinistra, poi, un probabile Assuero, il grande re dei Persiani, sta banchettando, mentre viene servito da tre fanciulli ebrei, forse per rimarcare la differenza nei confronti del popolo ebraico, allora in cattività a Babilonia, che, su consiglio della regina Ester, era impegnato nel digiuno di tre giorni.
A destra, ancora Assuero con la regina Ester, figura emblematica dell’Antico Testamento per la sua bellezza e per il suo coraggio, assicura la salvezza a tutti gli Ebrei e condanna a morte Aman, il suo perfido consigliere, che aveva architettato un piano per sterminare i discendenti di Mosè.
Le tre tele sono opere di Nicola Gliri (Bitonto 1631-1680), che proprio nella città confinante con Modugno fondò una sua scuola, dopo essersi formato soprattutto a quella di Carlo Rosa, suo maestro. Il Gliri ottenne molti riconoscimenti in tutta la Terra di Bari e le sue opere sono presenti in tante città (oltre a Modugno, Bari, Andria, Acquaviva, Bitonto, Conversano, Molfetta, Palo del Colle). Nel 1658 egli, con i suoi discepoli, fu chiamato dal priore della Basilica di San Nicola di Bari a realizzare le lunette della cripta, che ancora oggi si possono ammirare. Si tratta di un pittore che presenta i temi sacri con “una sua personale interpretazione, in chiave di edulcorata religiosità, dei problemi luministici” (C. Gelao, La vergine appare al Beato Reginaldo d’Orléans, scheda, in www.pinacotecabari,.it).
Quello della tecnica luministica fu il problema centrale della pittura del Seicento, mirante ad una figurazione fortemente caratterizzata da contrasti di luce e ombra o da tocchi di luce risaltanti su un fondo scuro, che fu particolarmente praticata e sviluppata in Puglia da molti pittori, fra i quali, oltre al Gliri, sono da annoverare Carlo Rosa (Giovinazzo, 1613 – Bitonto, 1678), pittore assai familiare ai Modugnesi per via soprattutto della ricca quadreria della Chiesa di Santa Maria del Suffragio, e Cesare Fracanzano (Bisceglie, 1605 – Barletta, 1651), la cui scuola fu forse frequentata negli anni giovanili dall’autore delle nostre tre tele dei tre lunettoni.
Infine, gli ultimi restauri, coordinati come quelli precedenti dall’arch. Fernando Russo -che in un suo breve intervento ha affermato che c’è tanto ancora da recuperare- hanno portato alla luce un affresco che rappresenta un’Annunciazione del tutto particolare per il suo significato teologico: fra l’angelo Gabriele e la Vergine vi è un tabernacolo, che custodisce la Salutaris Ostia, grazie alla quale viene assicurata agli uomini di tutti i tempi la continua incarnazione di Cristo. Quell’affresco, certamente precedente al completamento della chiesa, ha il merito di coniugare il tema dell’Annunciazione, che dà senso e nome alla chiesa, all’Eucarestia, che è il fondamento della Confraternita del Santissimo Sacramento.
Dietro l’altare, in due nicchie laterali vi sono le statue lignee reliquiarie, di buona fattura, di San Castore e San Basileo, opera di maestranze del Seicento, due santi del IV secolo, il cui culto non è presente nei territori di Terra di Bari.
Fra le due nicchie laterali vi è un grande “reliquario del Seicento in legno dorato, diviso in 28 caselle, che custodisce le reliquie di oltre 57 Santi e Martiri” (M. Ventrella, a cura di, Chiesa Maria SS. Annunziata, p. 7). In questo reliquario, precisamente nella casella n. 4, si troverebbero “due falangi del dito di San Corrado, racchiuse in una piccola custodia di bronzo, recante incise le lettere S. C.” (N. Milano, Curiosando per Modugno, p. 61). E San Corrado il Bavaro ci porta indietro al Medioevo, al ramo interno della Via Traiana e al Santuario di Sancta Maria ad criptam, più noto come “Madonna della Grotta”, che su quella antica via romana insisteva, dove egli, ritornando dalla Terra Santa “morì e fu sepolto nell’inverno del 1126-1127” (M. L. De Palma, La capë dë Sện Ghërrarë, p. 13). Le due falangi di San Corrado, patrono di Molfetta, si trovano a Modugno a partire dal 1303, quando i Molfettesi si impadronirono della salma del Santo, alla quale una donna modugnese riuscì a strappare un dito subito dopo che essa fu posta su un carro trainato da due buoi, prima che abbandonasse la nostra città.
Insomma, il cappellone del “Santissimo” è uno scrigno di arte e di storia, che merita di essere scoperto da tutti i Modugnesi. E a sollecitare la città a riappropriarsi di tanta parte della sua storia, della sua arte e della sua spiritualità è stato don Nicola Colatorti, che ha organizzato domenica 20 novembre il “Concerto Inaugurale” nel cappellone del Santissimo. Dopo aver richiamato il grande lavoro fatto dalle maestranze della “Ditta d’Organi Zanin” di Udine, la più antica bottega organaria d’Italia, fondata nel 1823, e dopo aver informato che il restauro dell’organo settecentesco è stato reso possibile dal contributo assicurato dalla CEI (Commissione Episcopale Italiana), con fondi derivanti dall’8 per mille, e dalla Regione Puglia, don Nicola ha invitato il consigliere regionale Peppino Longo e lo stesso dott. Francesco Zanin a dare il loro saluto.
Efficace ed assai interessante l’intervento di Francesco Zanin, che ha dato un giudizio particolarmente positivo dell’organo modugnese del 1723: “Pur essendo piccolo -ha solo 200 canne- il suo suono è perfetto. L’accurato esame degli elementi ha permesso di constatare l’alta qualità dello strumento di pregevole fattura in ogni sua parte”. Poi, ha condotto tutti i presenti alla scoperta dell’anima nascosta dell’organo, illustrando brevemente gli interventi fatti su di esso: il crivello, il somiere; il ventilabro, ovvero il “labbro del vento”, i mantici e così via dicendo¹. Insomma, un approccio veramente avvincente alla struttura di un organo antico, che ancora oggi ha un indiscutibile fascino.
La cantoria e l’organo del Settecento
(questa e le foto che seguono sono di Marco Pepe)
Poi, in una atmosfera di sospensione, di assoluto silenzio e di – è proprio il caso di dirlo- sentita religiosità, hanno cominciato a risuonare le note dell’organo settecentesco (Gilberto Scordari), e poi della tiorba (Paola Ventrella); del violone (Davide Milano); della viola da gamba (Antonella Parisi), del cornetto (David Brutti), -che ha catturato in particolare l’attenzione di Emilia, la mia nipotina più grande, per via della sua familiarità con il suo flauto traverso- dei tre sackbut² (Andrea Angeloni, Stefano Bellucci, Danilo Tamburo). E con gli strumenti si sono elevate verso il Cielo le note del piccolo-grande coro a voci dispari dell’Ensemble vocale Florilegium vocis. Il canto di nove soli cantori (Monica Papa, Monica Caputi, Giusi Bottalico, soprani; Anna Giordano, Giovanna Greco, alti; Marco e Gaetano Manzo, tenori; Michele Dispoto e Roberto Portoghese, bassi) ha riempito ogni angolo della nostra antica Chiesa Matrice, facendone rivivere i tanti messaggi che essa porge al fedele col suo soffitto ligneo di Domenico Scura, con le sue tele, con i suoi numerosi simboli, che affondano le loro radici nella “Buona Novella”; quei nove cantori, fra l’altro, mi hanno riportato indietro nel tempo e mi hanno fatto rivivere la mia piccola esperienza alla “Schola Cantorum” dell’indimenticabile don Luigi Minerva, a cui devo il mio amore per la musica classica in generale e a quella sacra in particolare. Strumenti e voci erano coordinati armonicamente dal direttore Sabino Manzo.
Già il primo brano, “Toccata avanti la messa”, di Girolamo Frescobaldi (1583-1643), l’unico dei brani eseguiti che io conoscessi, ci ha immerso nella nuova atmosfera dell’arte vocale e strumentale del Seicento del compositore ferrarese, mettendo in risalto una nuova sensibilità musicale, che “trova corrispondenza nelle immagini delle arti plastiche e nelle sontuose architetture del Barocco”; val qui la pena di sottolineare che lo stesso J. S. Bach si applicò a copiare ed assimilare le meraviglie organistiche del Frescobaldi. Poi i brani successivi, vocali e/o strumentali sono stati ora un tripudio di voci e di suoni per esaltare la Vergine, i Santi e soprattutto Dio, ora una preghiera sommessa che ha sospinto al ripiegamento interiore. L’acme, almeno per quanto mi riguarda, è stato raggiunto dal “Magnificat” di Michel’Angelo Grancini (1605-1669), del quale sono stati eseguiti altre 4 composizioni, fra le quali la bella “Missa brevis”. Due altri brani, solo per organo. di Johan Caspar Kerll (1627-1697), anche lui destinato ad influenzare Bach, hanno offerto il giusto completamento ad un primo approccio alla musica barocca, che, fra l’altro, è caratterizzata in sommo grado dall’uso della fuga e frequentemente da passaggi difficili e assai veloci, per cui la sua esecuzione richiede l’abilità, anzi il virtuosismo, dei musicisti e del solista. E tutti, voci e strumenti, e certamente l’organista, che utilizzava una tastiera, quella del nostro organo settecentesco, fatta solo di tre ottave complete, che lo impegnavano ad un intreccio di movimenti per cambiare velocemente i registri, sono stati assai virtuosi.
Se a questo si aggiunge che tutti gli strumenti erano copie fedeli degli originali e che il nostro organo è del 1723, si può ben dire che nel cappellone del Santissimo abbiamo riascoltato la musica di Dio che i nostri antenati hanno certamente sentito e cantato in uno dei tanti momenti liturgici del primo Settecento.
L’arcivescovo, mons. Franco Cacucci, e don Nicola Colatorti
al momento della benedizione dell’organo
E proprio sulla natura della musica del tempo, si è soffermato l’arcivescovo di Bari-Bitonto, mons. Franco Cacucci, che nel suo breve e illuminante intervento, ha stabilito un nesso fra la musica del Seicento e le conclusioni del Concilio di Trento (1545-1563), annotando subito dopo che la Chiesa con i suoi concili traccia le linee di una nuova spiritualità che solo in seguito l’arte traduce nelle sue molteplici produzioni. Ciò è vero anche per il Concilio Vaticano II (1962-1965), le cui conclusioni stanno dando impulso a nuove opere d’arte nei nostri tempi. E come non essere d’accordo con Franco Cacucci, quando ha sottolineato che il restauro del nostro organo e questo primo “Concerto Inaugurale” costituiscono un evento storico per tutti i Modugnesi, che ora si riappropriano di un’opera bella lasciata dai loro padri? Ma a porci di fronte alla bellezza non è solo l’organo ma, tutta intera, questa chiesa, che è bella -ha sottolineato Cacucci- e che è stata recuperata in tanta parte grazie alla tenacia di don Nicola Colatorti. A concludere questo tuffo nell’arte del passato, è stata la benedizione dell’organo e dei presenti, fatta dall’arcivescovo.
Che questa benedizione possa essere preludio a nuove manifestazioni d’arte dello stesso genere del “Concerto Inaugurale” e a nuove opere di restauro di altri organi, ben più grandi, presenti in altre chiese della città? Lo speriamo, perché in questo momento storico la città di Modugno ha bisogno di nutrirsi di bellezza per superare l’attuale clima di forte avversione, esclusione, e persino di ostilità, che sembra essere dominante soprattutto nella sua dimensione pubblica e politica. E, parafrasando Fëdor Michajlovič Dostoevskij, la bellezza non potrà che contribuire a rasserenare gli animi e a migliorare il clima della città.
Raffaele Macina
¹Il crivello è un piano forato parallelo al somiere che permette alle canne di stare in piedi; il somiere è una cassa sottostante il crivello, nella quale confluisce l'aria mantenuta dai mantici, che viene di volta in volta confluita nelle canne che poggiano su di essa; il ventilabro è una tavola posta all'interno del somiere, ricoperta di pelle, che permette l'immissione dell'aria in un preciso canale e poi in una precisa canna.
²La tiorba è uno "strumento musicale a corde pizzicate, della famiglia dei liuti (detto anche chitarrone): introdotto verso la fine del XVI sec. Si distingueva per avere due manici, essendo aggiunto, a lato di quello normale, un altro con alcune corde da toccarsi a vuoto; le corde erano quindi in tutto 14 o 16, parte di lamina, parte di budello. Lo strumento era soprattutto usato per accompagnare il canto e, nelle prime orchestre, per eseguire la del basso continuo" (Enciclopedia Treccani).
Il violone è un antico strumento della famiglia delle viole, in uso fra il XV e il XVIII sec, considerato l’antenato dell’attuale contrabbasso: il fondo è piatto, e termina in alto come quello della viola da gamba. La viola da gamba, "introdotta sul finire del sec. XV, di ampie proporzioni simili a quelle del posteriore violoncello, che si suonava tenendola tra le ginocchia, dotata di fondo piatto, fori a C, tastiera munita di tacche indicanti i tasti, manico largo, con numero di corde fino a 6, esistente in diversi tipi e accordature: molto usata fino a tutto il Settecento" (Vocabolario Treccani).
Il cornetto, nel nostro caso diritto, molto utilizzato fra XIV e XVIII sec., è "uno strumento a bocchino, formato di un tubo d'avorio o di legno leggermente conico, fasciato esternamente di pelle. Vi erano due specie di cornetti: diritti e torti; essi venivano anche distinti in cornetti bianchi e in cornetti neri, dal colore del materiale con cui era fatto il tubo. I cornetti torti erano composti di due parti innestate tra loro. I cornetti avevano sei buchi e, nella parte a questi opposta, s'apriva un settimo buco che si otturava col pollice, mentre gli altri venivano azionati dall'indice, dal medio e dall'anulare di ciascuna mano". (Enciclopedia Treccani).
"Il sackbut (dall'antico francese «saqueboute»: «spingi - tira») è un antico trombone, inventato nel XV secolo, probabilmente in Borgogna. Lo spessore del canneggio è più sottile del moderno trombone, determinandone un suono più dolce, mentre la campana è molto più piccola di quella del trombone moderno".
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