Category: Cultura

Avviso per gli abbonati

Si comunica a tutti i Soci della rivista Nuovi Orientamenti che è possibile ritirare, presso la sede operativa della stessa, (locale adiacente la chiesa del Purgatorio) la copia delle pubblicazioni “Tommaso Di Ciaula tra fabbrica e poesia” (prof. Serafino Corriero) – e Gli incontri del Millennio” (prof.ssa Sara Giannetto, prof. Raffaele Macina).La distribuzione dei volumi è riservata ai Soci in regola con la propria quota associativa e sarà effettuata ogni mercoledì, dalle ore 18,00 alle ore 20,00. Per coloro che non avessero ancora provveduto, nella circostanza sarà possibile rinnovare anche la propria adesione alla rivista.

Grazie.   

Viaggio all’interno del centro storico: Piazza Sedile

Un interessante contributo di Ivana Pirrone

Anno VI N. 1-2, Gennaio-Aprile 1984

Vogliamo ripercorrere le strade di Modugno, leggendo nelle pietre e negli spazi la storia della città, che è poi storia di uomini, per spiegare a noi stessi il senso di tante esistenze e persistenze e, conoscendo meglio il passato, con maggiore lucidità e competenza programmare il futuro. Futuro che per Modugno si chiama oggi piano regolatore: una serie di scelte che, se ben condotte, possono portare alla crescita programmata e ordinata della città e ad una migliore qualità della vita per i suoi abitanti; altrimenti il piano regolatore servirà ad accrescere caos e marasma edilizio, farà lievitare il disordine, cancellerà quelle forme di memoria collettiva che sono i luoghi, le strade, gli edifici.

Non si tratta, quindi, semplicemente di inventariare i cosiddetti monumenti e le opere d’arte, sostituendosi magari alle soprintendenze e segnalando i restauri da eseguire, ma piuttosto di individuare il corpus di luoghi e di edifici che hanno un significato, anche al di là del valore esclusivamente storico-artistico, e segnalarli perché siano salvaguardati. Ciò nella convinzione — lo ripetiamo — che solo conoscendo a fondo il passato, possiamo serenamente affrontare l’avvenire e che solo rispettando gli spazi fisici della città, potremo salvaguardarne il valore di koiné.

Siamo convinti assertori della validità dei contesti. Per quanto bello, infatti, possa apparire e per quanto grande sia il suo valore, isolare un edificio, col pretesto che si tratta di una emergenza architettonica, e demolire ciò che lo circonda e gli fa da supporto perché privo di pari rilevanza artistica, non ci trova d’accordo. Sarebbe come isolare, in un’opera teatrale o letteraria, la sola parte del protagonista. Anche una tragedia di Shakespeare diverrebbe immediatamente risibile, non sostenuta dai rimandi dei comprimari e giù giù fino alle battute delle più umili comparse. Eppure, questa è pratica abituale negli interventi di urbanistica! Noi cerchiamo invece i «nodi» di una realtà dinamica e quindi siamo piuttosto propensi a dar rilievo a situazioni stimolanti per una serie di piccoli rimbalzi e notazioni più implicite che dichiarate, ovvero ad edifici di modesta esecuzione ma che coralmente producano armonia, piuttosto che al singolo edificio, sprizzante arte da tutti i pori, mummificato in uno spazio morto ed artificialmente creatogli d’attorno.

Il nostro giro per il centro storico della città comincia da Piazza Sedile, chiamata così dal nome dell’edificio nel quale si tenevano le riunioni dei nobili che gestivano il potere amministrativo della città. Nella forma attuale il palazzo turrito del Sedile, che oggi ospita la biblioteca comunale, risale, come dice l’iscrizione scolpita sulla facciata, al 1713, anno in cui l’ordine dei Nobili lo restaurò a proprie spese e lo dotò di torre con l’orologio.

L’ingresso alla sua sala è preceduto da una graziosa scaletta a due rampe convergenti verso un ballatoio, dal quale si abbraccia con lo sguardo tutta la piazza: spazio essenzialmente umano, che si articola in tanti sottospazi antistanti gli ingressi dei vari locali che si aprono a livello del piano stradale. È di fronte al Sedile infatti che si affacciano le sezioni locali dei vari partiti e le varie associazioni sindacali, civili e militari.

Tutto qui contribuisce a qualificare questo spazio per la sua naturale destinazione, che è destinazione dialogica di incontro civile, di dibattito culturale, di rapporto umano.

Com’è nelle più consolidate tradizioni delle nostre regioni la struttura di questo luogo ha funzione polivalente ed è frutto del contemperarsi di diverse realtà, tutte egualmente importanti e tra loro complementari, tutte egualmente rappresentative di un aspetto del potere. Così, se il potere economico e sociale faceva capo al palazzo del Sedile, quello religioso era rappresentato dalla cosiddetta «Chiesa del Purgatorio» (S. Maria del Suffragio).

Di fattura seicentesca, è preceduta da un sagrato rialzato che copre una vasta cisterna pubblica, costruita dalla Confraternita del Purgatorio nel I860 per raccogliere le acque piovane e conservarle per i tempi di siccità. La facciata è preceduta da un portico in pietra che risale al secolo scorso, quando fu rifatto a seguito di un crollo, seguito alla esibizione acrobatica di un funambolo. Storia singolare che testimonia di un’epoca non poi tanto lontana in cui questi luoghi facevano anche da palcoscenico!

L’interno è a una navata con pilastri a doppio capitello che sorreggono la volta a botte; sulle pareti si ammirano pregevoli tele ed una artistica cantoria. Dobbiamo dire però che, se la chiesa risale al 1600 ed il Sedile è stato riedificato ancora più tardi, l’assetto di questa zona risale a un periodo molto anteriore. Non tutti sanno che questa piazza esisteva già fin da quando a Nord, sul lato opposto all’ingresso della chiesa, si apriva la porta detta delle Beccherie, che costituiva uno degli accessi originali della cinta muraria che racchiudeva il borgo antico.

È quindi certo che fin dal Medioevo, e cioè fin da quando il borgo di Modugno si è costituito, questa zona assolveva al suo compito di cuore pulsante per [l’organizzazione della vita di un gruppo di uomini che aveva deciso di vivere assieme, usufruendo in comune di questo territorio e delle sue risorse, condividendo rischi a fatiche. Si instaurò allora quella caratteristica dimensione di vita, favorita dalla demenza del clima, per cui la Socialità si sviluppava negli spazi esterni alle abitazioni i quali divengono veri saloni comuni, dove l’anziano può godere dell’ultimo raggio di calore prima che imbruni, il giovane occhieggia le ragazze, il sensale stipula affari.

Si organizza così una tranquilla vita di paese che si dipana con ritmo mai affannoso ma sempre dinamicamente vivo dall’abbraccio della dimensione spazialmente raccolta della piazza. Il rischio di oggi è invece che questo spazio comune dilati le sue funzioni e che acquisti un nuovo valore, che Piazza Sedile si trasformi in centro commerciale. Già le prime boutiques ne hanno forzato l’ingresso ed hanno violato con la pacchianeria delle loro insegne e la vistosità ed invadenza delle vetrine la serenità e compostezza degli spazi.

Si avvia cioè un processo che può forse portare al degrado e senz’altro allo snaturamento della zona.
Basta guardare un po’ in là, per esempio nel quartiere muratiano del capoluogo, pe rendersene conto.

Oggi un traffico caotico, un decremento della popolazione residente, un altissimo indice di pendolarità sono le caratteristiche di quel quartiere che ha vissuto un intenso processo di conversione commerciale. Il tentativo di farne una city ne ha scacciato gli abitanti, riciclato le case trasformandole in uffici e negozi o depositi, ha gravemente compromesso l’indice di vivibilità distruggendo ogni equilibrio.

Ebbene, è questo il futuro di Piazza Sedile?

Maria Trentadue

Modugno, 20 settembre 1893 – Modugno, 27 aprile 1987


Modugno, 27 aprile 1987: trentacinque anni fa ci lasciava Maria Trentadue, definita come la “grande” pittrice “naif” di Modugno, che amava dipingere su qualsiasi cosa, pur di dare spazio alla sua irrefrenabile e fantastica creatività.

Iniziò all’età di 65 anni rappresentando un mondo fatto di colori. Le sue immagini esprimono originalità espressive, personaggi sorridenti; tutto riconduce ad un contesto fiabesco, dove le proporzioni si annullano per dare spazio ad un nuovo modo di interpretare il suo mondo.

Lo scrittore Tommaso Di Ciaula, si accorse del talento di Maria Trentadue per caso.  Mentre passeggiava nei dintorni di casa sua notò alcuni suoi quadri asciugare al sole. Nacque un sodalizio molto forte: lo testimonia un passaggio del libro “Tuta blu”, dove lo scrittore, oltre a descrivere la sua visita, ripercorre i tratti della personalità di Maria, caratterizzata da un forte attaccamento alla fede cristiana ed alla famiglia; sempre attenta ai più bisognosi.

Il 5 marzo del 1985, presso “L’Arcaccio“, fu presentata una grande retrospettiva delle sue opere, per celebrare l’ormai acquisita popolarità nell’ambito della nostra cultura cittadina.  Recentemente, in occasione delle iniziative per celebrare il “Millennio” della nostra Città, dal 13 al 27 marzo di quest’anno, grazie ad una iniziativa promossa dalla FIDAPA BPW Italy, Sezione di Modugno [patrocinata dal nostro Comune],  presso la sala Multimediale Palazzo Santa Croce è stata allestita una mostra dal titolo “Maria Trentadue, una donna millenaria” curata dalla dott.ssa Melissa Destino.

Per chi volesse approfondire, si riportano qui di seguito alcuni contributi pubblicati dalla nostra rivista, dedicari alla figura di Maria Trentadue, tra i quali una interessante  – “Conversazione con Tommaso Di Ciaula sulla pittura di Maria Trentadue – Una Ligabue a Modugno” – a firma del prof. Serafino Corriero. 

Grazie per l’attenzione.

Una Ligabue a Modugno [prof. Serafino Corriero]
Il senso di un sogno [dott. Agostino Di Ciaula]; a seguire  
Zi Marie mi diceva […]  [Lino Cavallo]
A dieci anni dalla scomparsa [Tommaso Di Ciaula]

 

Cultura

Totò visto da Sandro De Feo [2013]
La bellezza risplende in quattro tele, Ivana Pirrone [2013]
La natività nelle tele del Purgatorio [2016] 

 

Aristotele invita a riflettere sul futuro

Aristotele invita a riflettere anche sul presente

Pensiero greco e cristianesimo

San Giustino, Commento al Dialogo con Trifone
Giustino martire visto da Benedetto XVI

Giustino e la filosofia

«Anch’io da principio, desiderando incontrarmi con uno di questi uomini (filosofi), mi recai da uno stoico. Passato con lui un certo tempo senza alcun profitto da parte mia sul problema di Dio (lui non ne sapeva niente, e d’altra parte diceva trattarsi di una cognizione non necessaria), lo lasciai e andai da un altro, chiamato peripatetico. Acuto, o al meno si riteneva tale. Costui per i primi giorni mi sopportò, poi pretendeva che per il seguito stabilissi un compenso, pena l’inutilità della nostra frequentazione. Per questo motivo abbandonai anche lui, ritenendolo proprio per nulla un filosofo.
Il mio animo tuttavia era ancora gonfio del desiderio di ascoltare lo straordinario ammaestramento proprio della filosofia, per cui mi recai da un pitagorico di eccelsa reputazione, uomo di grandi vedute quanto alla sapienza. Come dunque venni a conferire con lui, volendo diventare suo uditore e discepolo, mi fece: “Vediamo, hai coltivato la musica, l’astronomia, la geometria? O pensi forse di poter discernere alcunché di quanto concorre alla felicità prima di esserti istruito in queste discipline, che distolgono l’animo dalle cose materiali e lo preparano a trarre frutto da quelle spirituali, sì da giungere a contemplare direttamente il bello e il bene?”.
Così, dopo aver tessuto le lodi di queste scienze ed averne affermato la necessità, mi rispedì, avendo io dovuto ammettere che non le conoscevo. Ero afflitto, com’è naturale, avendo mancato le mie aspettative, tanto più che ero convinto che tale avesse una certa competenza. D’alta parte, considerando il tempo che avrei dovuto passare su quelle discipline, non potei tollerare l’idea di accantonare così a lungo le mie aspirazioni.
Senza via di uscita, decisi di entrare in contatto anche con i platonici, i quali pure godevano di grande fama. Eccomi dunque a frequentare assiduamente un uomo assennato, giunto da poco nella mia città, che eccelleva tra i platonici, e ogni giorno facevo dei progressi notevolissimi. Mi affascinava la conoscenza delle realtà incorporee e la contemplazione delle Idee eccitava la mia mente. Ben presto dunque ritenni di essere diventato un saggio e coltivavo la mia gioca speranza di giungere alla immediata visione di Dio. Perché questo è lo scopo della filosofia di Platone.
Mi trovavo dunque in questa situazione, quando pensai di immergermi nella quiete assoluta e sottrarmi alla calca degli uomini, e per questo mi dirigevo verso una località non lontana dal mare. Ero ormai giunto al luogo in cui mi proponevo stare solo con me stesso, quand’ecco un vecchio carico di anni, di bell’aspetto e dall’aria mite e veneranda, poco discosto da me seguiva i miei passi. Mi volsi e lo fronteggiai fissandolo intensamente.
– Mi conosci? – fa lui.
Dissi di no.
– Perché allora, riprese, mi squadri così?
– Mi sorprende che tu sia capitato nel mio stesso posto, perché non mi sarei mai aspettato di trovare qualcuno di questi parti.
– Sono in pensiero per certi miei congiunti, mi dice. Si trovano lontano da me e per questo a mia volta vengo a vedere di loro, caso mai spuntassero da qualche parte. Tu piuttosto, fa lui a me, che cosa fai qui?
– Mi piace occupare il tempo in questo modo, risposi, perché posso liberamente dialogare con me stesso. Posti come questo favoriscono il desiderio di raziocinare.
– Ah!, sei dunque un cultore del raziocinio, e non dell’azione e della verità. E non ti provi ad essere un uomo di azione piuttosto che di sofismi?
Risposi: – Quale azione più grande e migliore si potrebbe compiere che non mostrare che la ragione tutto governa, afferrarla e salirci su per vedere dall’alto gli errori ed il comportamento degli altri, che non fanno nulla di sensato e di gradito a Dio? Senza la filosofia e la retta ragione non ci può essere saggezza. Per questo ogni uomo ha il dovere di darsi alla filosofia e ritenerla l’azione più grande e degna di onore. Tutto il resto viene in secondo o terzo ordine, ed in quanto è connesso con la filosofia è conveniente e degno di essere accettato, in quanto invece ne è disgiunto ed è esercitato di gente cui la filosofia non è compagna, è sconveniente e volgare”.
Dopo questa lode del sapere filosofico, comincia adesso un dialogo sulla natura della filosofia e sulla nozione di Dio:
– La filosofia dunque procura la felicità? – intervenne quello.
– Certamente – dissi – ed è l’unica in grado di farlo.
Riprese: – ma che cos’è la filosofia, e qual è la felicità che procura? Se non hai degli impedimenti a dirlo dillo!
– La filosofia – risposi – è la scienza dell’essere e la conoscenza del vero, e la felicità che procura è il premio di questa scienza e di questa sapienza.
– Ma tu che cos’è che chiami Dio? Chiese.
– Ciò che è sempre uguale a se stesso e che è causa di esistenza per tutte le altre realtà, questo è Dio.
Così gli risposi e mi parve rallegrato…
– E chi mai si potrà prendere come maestro, feci io, e di dove si potrà trarre giovamento se neppure in uomini come Platone e Pitagora si trova la verità?
– Molto tempo fa, prima di tutti costoro che sono tenuti per filosofi, vissero uomini beati, giusti e graditi a Dio, che parlavano mossi dallo spirito divino e predicevano le cose future che si sono ora avverate. Li chiamano profeti e sono i soli che hanno visto la verità e l’hanno annunciata agli uomini senza remore o riguardo per nessuno e senza farsi dominare dall’ambizione, ma proclamando solo ciò che, ripieni di Spirito santo, avevano visto e udito.
I loro scritti sono giunti fino a noi e chi li legge prestandovi fede ne ricava sommo giovamento, sia riguardo alla dottrina dei principi che a quella del fine e su tutto ciò che il filosofo deve sapere. Essi, infatti, non hanno presentato il loro argomento in forma dimostrativa, in quanto rendono alla verità una testimonianza degna di fede e superiore ad ogni dimostrazione, e gli avvenimenti passati e presenti costringono a convenire su ciò che è stato detto per mezzo di loro.
Essi inoltre si sono mostrati degni di fede in forza dei prodigi che hanno compiuto, e questo perché sia glorificato Dio Padre, creatore di tutte le cose, sia hanno annunciato il Figlio suo, il Cristo da lui inviato… Prega dunque perché innanzitutto ti si aprano le porte della luce: si tratta infatti di cose che non tutti possono vedere e capire ma solo coloro cui lo concedono Dio ed il suo Cristo.
Dopo aver detto queste e altre cose, che non è qui il momento di riferire, quel vecchio se ne andò con l’esortazione a non lasciare cadere, e da allora non l’ho più rivisto. Quanto a me, un fuoco divampò all’istante nel mio animo e mi pervase l’amore per i profeti e per quelli uomini che sono amici di Cristo. Ponderando tra me e le sue parole trovai che questa era l’unica filosofia certa e proficua.
In questo modo e per queste ragioni io sono un filosofo, e vorrei che tutti assumessero la mia stessa risoluzione e più non si allontanassero dalle parole del Salvatore».
(Giustino, Dialogo con Trifone, traduzione e note a cura di Giuseppe Visonà, Edizioni Paoline, Milano 1988).

 

 

Avvertenze:

Col brano di Paolo di Tarso siamo partiti dalla contestualizzazione storica e culturale del brano stesso, richiamando le principali posizioni dell’autore, il clima culturale e religioso di Atene nella prima metà del primo secolo, per poi commentare il discorso di Paolo all’areòpago; con Giustino, invece, ci si propone di partire immediatamente con la lettura del brano, e, partendo, dalle sue affermazioni dovremmo risalire al contesto storico e alle posizioni di Giustino. Naturalmente, è necessario che ci sia una sufficiente informazione sulla vita e sul pensiero di Giustino.

Una informazione generale su Giustino la si può trovare su “pagine cattoliche”. Qui di seguito il link:
http://www.paginecattoliche.it/modules.php?name=News&file=article&sid=526

è poi opportuno avere informazioni di natura generale sugli apologisti, fra i quali emerge Giustino. Qui di seguito il link per un primo contatto con l’argomento:
http://www.webalice.it/paolorodelli/Letture%20e%20testi/Vaticano/apologisti.html

 

Paolo di Tarso ad Atene

Paolo di Tarso ad Atene

La musica di Dio risuona a Modugno nella cappella del “Santissimo”

A Modugno non c’è altro luogo, come il cappellone del Santissimo Sacramento della Chiesa Matrice, che, pur modesto per dimensioni, abbia una così ricca concentrazione di arte e di bellezza, di cui sono autori importanti pittori e assai qualificate maestranze.

Già l’alta cancellata e i due pezzi di balaustra, impreziosita da marmi istoriati e intarsiati, distinguendo e delimitando l’ambiente, sembrano segnalarlo come luogo del tutto particolare. Infatti, tre scritte, – sulle quali richiama la mia attenzione Sofia, la mia nipotina più piccola-  la prima, a destra, Venite e comedite (Venite e mangiate insieme), la seconda a sinistra, Venite et bibite vinum meum, (Venite e bevete il mio vino/sangue), e la terza in una sorta di cartiglio al centro dell’arco che sormonta l’altare, Salutaris Ostia (l’Ostia della salvezza), riportandoci al mistero del pane e del vino che si fanno Corpo e Sangue di Cristo, ci avvertono che entriamo nel luogo del “Santissimo Sacramento”, o semplicemente del “Santissimo”, ovvero nel luogo dedicato al “sacramento dei sacramenti”, poiché esso, rinnovando la presenza di Cristo tramite l’Ostia salutaris, rende stabile e continuo lo stato di grazia, al quale tendono gli altri sacramenti, che scandiscono i momenti di formazione del cristiano nella sua vita terrena (battesimo, confessione, cresima, ecc).

 

A Modugno, però, il culto del Santissimo Sacramento non si sviluppò, come accadde altrove, su impulso del Concilio di Trento, che, confutando le tesi di Lutero, fissò che “nel divino sacramento della Santa Eucarestia, dopo la consacrazione del pane e del vino, è contenuto veramente, realmente e sostanzialmente […] il nostro signore Gesù Cristo, vero Dio e vero uomo” (Sessione XIII, 11 ottobre 1551). A Modugno il culto del Santissimo Sacramento – mi dice don Nicola Colatorti – è attestato ben prima da alcuni documenti presenti nell’Archivio Capitolare che lo fanno risalire agli inizi del Quattrocento.

Entrando nel Santissimo, si è quasi tentati di non posare i piedi sul pavimento maiolicato del Seicento, che nei punti di più intenso calpestìo è, ahimè, piuttosto usurato. A destra, fra due angeli, opere risalenti al 1939 dell’affrescatore Nicola Colonna, si trova l’antico organo del 1723; a sinistra, c’è un “Cristo Morto” di buona fattura, di cui probabilmente sono autori i maestri cartapestai salentini. Sopra il Cristo la tela dell’Ultima Cena, opera prodotta da Giuseppe Montrone nel 1905.

Ma è sollevando lo sguardo che si è rapiti da colori, figure e tematiche che sospingono al ripiegamento interiore e a riflettere sui grandi temi della condizione umana e del suo rapporto con la trascendenza.

E, innanzitutto, si è colpiti dal maestoso affresco della cupola, che

cupolasembra volersi smaterializzare e raggiungere il Cielo per congiungere le sue figure alle persone di riferimento, che lì vivono in uno stato di beatitudine eterna. Al centro dominano le tre persone della Trinità, che con atteggiamento solenne proclamano e incoronano la Madonna regina dell’intera Chiesa trionfante. Ad una tale incoronazione partecipano gli animi più nobili della storia del Cristianesimo: immediatamente, alla destra della Vergine sono disposti i 12 apostoli, seguiti poi dai Santi, fra i quali si riconoscono San Francesco d’Assisi e San Francesco da Paola, quasi contigui ai martiri, che hanno preferito la soppressione della loro vita terrena in vista di quella eterna; seguono poi le Vergini, fra le quali emerge S. Caterina d’Alessandria, dal grande eloquio filosofico, che la ruota dentata del supplizio a cui fu condannata non riuscì a stroncare, per cui si rese necessaria la sua decapitazione; infine, un gruppo di venerandi profeti, disposti alla sinistra della Vergine, chiude e conclude il grandioso affresco, che Vito Antonio De Filippis terminò nel 1705.

Ai lati della cupola, tre lunettoni ospitano altrettante tele, che, con scene assunte dall’Antico Testamento, mostrano l’onnipotenza di Dio, senza della quale non potrebbe esserci la Chiesa trionfante.

 

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Sul fondo, con colori baluginanti, che danno già essi il senso della tragedia, il Mar Rosso si apre e inghiotte l’armata del faraone: a nulla serve il recalcitrare dei cavalli o il loro tentativo di cambiare direzione, poiché la potenza che Dio conferisce al Mar Rosso sovrasta e fagogita tutto ciò che è alla sua portata.

 

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Nel lunettone di sinistra, poi, un probabile Assuero, il grande re dei Persiani, sta banchettando, mentre viene servito da tre fanciulli ebrei, forse per rimarcare la differenza nei confronti del popolo ebraico, allora in cattività a Babilonia, che, su consiglio della regina Ester, era impegnato nel digiuno di tre giorni.

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A destra, ancora Assuero con la regina Ester, figura emblematica dell’Antico Testamento per la sua bellezza e per il suo coraggio, assicura la salvezza a tutti gli Ebrei e condanna a morte Aman, il suo perfido consigliere, che aveva architettato un piano per sterminare i discendenti di Mosè.

Le tre tele sono opere di Nicola Gliri (Bitonto 1631-1680), che proprio nella città confinante con Modugno fondò una sua scuola, dopo essersi formato soprattutto a quella di Carlo Rosa, suo maestro. Il Gliri ottenne molti riconoscimenti in tutta la Terra di Bari e le sue opere sono presenti in tante città (oltre a Modugno, Bari, Andria, Acquaviva, Bitonto, Conversano, Molfetta, Palo del Colle). Nel 1658 egli, con i suoi discepoli, fu chiamato dal priore della Basilica di San Nicola di Bari a realizzare le lunette della cripta, che ancora oggi si possono ammirare. Si tratta di un pittore che presenta i temi sacri con “una sua personale interpretazione, in chiave di edulcorata religiosità, dei problemi luministici” (C. Gelao, La vergine appare al Beato Reginaldo d’Orléans, scheda, in www.pinacotecabari,.it).

Quello della tecnica luministica fu il problema centrale della pittura del Seicento, mirante ad una figurazione fortemente caratterizzata da contrasti di luce e ombra o da tocchi di luce risaltanti su un fondo scuro, che fu particolarmente praticata e sviluppata in Puglia da molti pittori, fra i quali, oltre al Gliri, sono da annoverare Carlo Rosa (Giovinazzo, 1613 – Bitonto, 1678), pittore assai familiare ai Modugnesi per via soprattutto della ricca quadreria della Chiesa di Santa Maria del Suffragio, e Cesare Fracanzano (Bisceglie, 1605 – Barletta, 1651), la cui scuola fu forse frequentata negli anni giovanili dall’autore delle nostre tre tele dei tre lunettoni.

Infine, gli ultimi restauri, coordinati come quelli precedenti dall’arch. Fernando Russo -che in un suo breve intervento ha affermato che c’è tanto ancora da recuperare- hanno portato alla luce un affresco che rappresenta un’Annunciazione del tutto particolare per il suo significato teologico: fra l’angelo Gabriele e la Vergine vi è un tabernacolo, che custodisce la Salutaris Ostia, grazie alla quale viene assicurata agli uomini di tutti i tempi  la continua incarnazione di Cristo. Quell’affresco, certamente precedente al completamento della chiesa, ha il merito di coniugare il tema dell’Annunciazione, che dà senso e nome alla chiesa, all’Eucarestia, che è il fondamento della Confraternita del Santissimo Sacramento.

Dietro l’altare, in due nicchie laterali vi sono le statue lignee reliquiarie, di buona fattura, di San Castore e San Basileo, opera di maestranze del Seicento, due santi del IV secolo, il cui culto non è presente nei territori di Terra di Bari.

Fra le due nicchie laterali vi è un grande “reliquario del Seicento in legno dorato, diviso in 28 caselle, che custodisce le reliquie di oltre 57 Santi e Martiri” (M. Ventrella, a cura di, Chiesa Maria SS. Annunziata, p. 7). In questo reliquario, precisamente nella casella n. 4, si troverebbero “due falangi del dito di San Corrado, racchiuse in una piccola custodia di bronzo, recante incise le lettere S. C.” (N. Milano, Curiosando per Modugno, p. 61). E San Corrado il Bavaro ci porta indietro al Medioevo, al ramo interno della Via Traiana e al Santuario di Sancta Maria ad criptam, più noto come “Madonna della Grotta”, che su quella antica via romana insisteva, dove egli, ritornando dalla Terra Santa “morì e fu sepolto nell’inverno del 1126-1127” (M. L. De Palma, La capë dë Sện Ghërrarë, p. 13). Le due falangi di San Corrado, patrono di Molfetta, si trovano a Modugno a partire dal 1303, quando i Molfettesi si impadronirono della salma del Santo, alla quale una donna modugnese riuscì a strappare un dito subito dopo che essa fu posta su un carro trainato da due buoi, prima che abbandonasse la nostra città.

Insomma, il cappellone del “Santissimo” è uno scrigno di arte e di storia, che merita di essere scoperto da tutti i Modugnesi. E a sollecitare la città a riappropriarsi di tanta parte della sua storia, della sua arte e della sua spiritualità è stato don Nicola Colatorti, che ha organizzato domenica 20 novembre il “Concerto Inaugurale” nel cappellone del Santissimo. Dopo aver richiamato il grande lavoro fatto dalle maestranze della “Ditta d’Organi Zanin” di Udine, la più antica bottega organaria d’Italia, fondata nel 1823, e dopo aver informato che il restauro dell’organo settecentesco è stato reso possibile dal contributo assicurato dalla CEI (Commissione Episcopale Italiana), con fondi derivanti dall’8 per mille, e dalla Regione Puglia, don Nicola ha invitato il consigliere regionale Peppino Longo e lo stesso dott. Francesco Zanin a dare il loro saluto.

Efficace ed assai interessante l’intervento di Francesco  Zanin, che ha dato un giudizio particolarmente positivo dell’organo modugnese del 1723: “Pur essendo piccolo -ha solo 200 canne- il suo suono è perfetto. L’accurato esame degli elementi ha permesso di constatare l’alta qualità dello strumento di pregevole fattura in ogni sua parte”. Poi, ha condotto tutti i presenti alla scoperta dell’anima nascosta dell’organo, illustrando brevemente gli interventi fatti su di esso: il crivello, il somiere; il ventilabro, ovvero il “labbro del vento”, i mantici e così via dicendo¹. Insomma, un approccio veramente avvincente alla struttura di un organo antico, che ancora oggi ha un indiscutibile fascino.

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La cantoria e l’organo del Settecento

(questa e le foto che seguono sono di Marco Pepe)

Poi, in una atmosfera di sospensione, di assoluto silenzio e di – è proprio il caso di dirlo- sentita religiosità, hanno cominciato a risuonare le note dell’organo settecentesco (Gilberto Scordari), e poi della tiorba (Paola Ventrella); del violone (Davide Milano); della viola da gamba (Antonella Parisi), del cornetto (David Brutti), -che ha catturato in particolare l’attenzione di Emilia, la mia nipotina più grande, per via della sua familiarità con il suo flauto traverso- dei tre sackbut² (Andrea Angeloni, Stefano Bellucci, Danilo Tamburo). E con gli strumenti si sono elevate verso il Cielo le note del piccolo-grande coro a voci dispari dell’Ensemble vocale Florilegium vocis. Il canto di nove soli cantori (Monica Papa, Monica Caputi, Giusi Bottalico, soprani; Anna Giordano, Giovanna Greco, alti; Marco e Gaetano Manzo, tenori; Michele Dispoto e Roberto Portoghese, bassi) ha riempito ogni angolo della nostra antica Chiesa Matrice, facendone rivivere i tanti messaggi che essa porge al fedele col suo soffitto ligneo di Domenico Scura, con le sue tele, con i suoi numerosi simboli, che affondano le loro radici nella “Buona Novella”; quei nove cantori, fra l’altro, mi hanno riportato indietro nel tempo e mi hanno fatto rivivere la mia piccola esperienza alla “Schola Cantorum” dell’indimenticabile don Luigi Minerva, a cui devo il mio amore per la musica classica in generale e a quella sacra in particolare. Strumenti e voci erano coordinati armonicamente dal direttore Sabino Manzo.

coro

Già il primo brano, “Toccata avanti la messa”, di Girolamo Frescobaldi (1583-1643), l’unico dei brani eseguiti che io conoscessi, ci ha immerso nella nuova atmosfera dell’arte vocale e strumentale del Seicento del compositore ferrarese, mettendo in risalto una nuova sensibilità musicale, che “trova corrispondenza nelle immagini delle arti plastiche e nelle sontuose architetture del Barocco”; val qui la pena di sottolineare che lo stesso J. S. Bach si applicò a copiare ed assimilare le meraviglie organistiche del Frescobaldi. Poi i brani successivi, vocali e/o strumentali sono stati ora un tripudio di voci e di suoni per esaltare la Vergine, i Santi e soprattutto Dio, ora una preghiera sommessa che ha sospinto al ripiegamento interiore. L’acme, almeno per quanto mi riguarda, è stato raggiunto dal “Magnificat” di Michel’Angelo Grancini (1605-1669), del quale sono stati eseguiti altre 4 composizioni, fra le quali la bella “Missa brevis”. Due altri brani, solo per organo. di Johan Caspar Kerll (1627-1697), anche lui destinato ad influenzare Bach, hanno offerto il giusto completamento ad un primo approccio alla musica barocca, che, fra l’altro, è caratterizzata in sommo grado dall’uso della fuga e frequentemente da passaggi difficili e assai veloci, per cui la sua esecuzione richiede l’abilità, anzi il virtuosismo, dei musicisti e del solista. E tutti, voci e strumenti, e certamente l’organista, che utilizzava una tastiera, quella del nostro organo settecentesco, fatta solo di tre ottave complete, che lo impegnavano ad un intreccio di movimenti per cambiare velocemente i registri, sono stati assai virtuosi.

Se a questo si aggiunge che tutti gli strumenti erano copie fedeli degli originali e che il nostro organo è del 1723, si può ben dire che nel cappellone del Santissimo abbiamo riascoltato la musica di Dio che i nostri antenati hanno certamente sentito e cantato in uno dei tanti momenti liturgici del primo Settecento.

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L’arcivescovo, mons. Franco Cacucci, e don Nicola Colatorti

al momento della benedizione dell’organo

E proprio sulla natura della musica del tempo, si è soffermato l’arcivescovo di Bari-Bitonto, mons. Franco Cacucci, che nel suo breve e illuminante intervento, ha stabilito un nesso fra la musica del Seicento e le conclusioni del Concilio di Trento (1545-1563), annotando subito dopo che la Chiesa con i suoi concili traccia le linee di una nuova spiritualità che solo in seguito l’arte traduce nelle sue molteplici produzioni. Ciò è vero anche per il Concilio Vaticano II (1962-1965), le cui conclusioni stanno dando impulso  a nuove opere d’arte nei nostri tempi. E come non essere d’accordo con Franco Cacucci, quando ha sottolineato che il restauro del nostro organo e  questo primo “Concerto Inaugurale” costituiscono un evento storico per tutti i Modugnesi, che ora si riappropriano di un’opera bella lasciata dai loro padri? Ma a porci di fronte alla bellezza non è solo l’organo ma, tutta intera, questa chiesa, che è bella -ha sottolineato Cacucci- e che è stata recuperata in tanta parte grazie alla tenacia di don Nicola Colatorti. A concludere questo tuffo nell’arte del passato, è stata la benedizione dell’organo e dei presenti, fatta dall’arcivescovo.

Che questa benedizione possa essere preludio a nuove manifestazioni d’arte dello stesso genere del “Concerto Inaugurale” e a nuove opere di restauro di altri organi, ben più grandi, presenti in altre chiese della città? Lo speriamo, perché in questo momento storico la città di Modugno ha bisogno di nutrirsi di bellezza per superare l’attuale clima di forte avversione, esclusione, e persino di ostilità, che sembra essere dominante soprattutto nella sua dimensione pubblica e politica. E, parafrasando Fëdor Michajlovič Dostoevskij, la bellezza non  potrà che contribuire a rasserenare gli animi e a migliorare il clima della città.

Raffaele Macina

 

 
¹Il crivello è un piano forato parallelo al somiere che permette alle canne di stare in piedi; il somiere è una cassa sottostante il crivello, nella quale confluisce l'aria mantenuta dai mantici, che viene di volta in volta confluita nelle canne che poggiano su di essa; il ventilabro è una tavola posta all'interno del somiere, ricoperta di pelle, che permette l'immissione dell'aria in un preciso canale e poi in una precisa canna.
²La tiorba è uno "strumento musicale a corde pizzicate, della famiglia dei liuti (detto anche chitarrone): introdotto verso la fine del XVI sec. Si distingueva per avere due manici, essendo aggiunto, a lato di quello normale, un altro con alcune corde da toccarsi a vuoto; le corde erano quindi in tutto 14 o 16, parte di lamina, parte di budello. Lo strumento era soprattutto usato per accompagnare il canto e, nelle prime orchestre, per eseguire la ­ del basso continuo" (Enciclopedia Treccani).
Il violone è un antico strumento della famiglia delle viole, in uso fra il XV e il XVIII sec, considerato l’antenato dell’attuale contrabbasso: il fondo è piatto, e termina in alto come quello della viola da gamba. La viola da gamba, "introdotta sul finire del sec. XV, di ampie proporzioni simili a quelle del posteriore violoncello, che si suonava tenendola tra le ginocchia, dotata di fondo piatto, fori a C, tastiera munita di tacche indicanti i tasti, manico largo, con numero di corde fino a 6, esistente in diversi tipi e accordature: molto usata fino a tutto il Settecento" (Vocabolario Treccani).
Il cornetto, nel nostro caso diritto, molto utilizzato fra XIV e XVIII sec., è "uno strumento a bocchino, formato di un tubo d'avorio o di legno leggermente conico, fasciato esternamente di pelle. Vi erano due specie di cornetti: diritti e torti; essi venivano anche distinti in cornetti bianchi e in cornetti neri, dal colore del materiale con cui era fatto il tubo. I cornetti torti erano composti di due parti innestate tra loro. I cornetti avevano sei buchi e, nella parte a questi opposta, s'apriva un settimo buco che si otturava col pollice, mentre gli altri venivano azionati dall'indice, dal medio e dall'anulare di ciascuna mano". (Enciclopedia Treccani).
 "Il sackbut (dall'antico francese «saqueboute»: «spingi - tira») è un antico trombone, inventato nel XV secolo, probabilmente in Borgogna. Lo spessore del canneggio è più sottile del moderno trombone, determinandone un suono più dolce, mentre la campana è molto più piccola di quella del trombone moderno".


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