sembra volersi smaterializzare e raggiungere il Cielo per congiungere le sue figure alle persone di riferimento, che lì vivono in uno stato di beatitudine eterna. Al centro dominano le tre persone della Trinità, che con atteggiamento solenne proclamano e incoronano la Madonna regina dell’intera Chiesa trionfante. Ad una tale incoronazione partecipano gli animi più nobili della storia del Cristianesimo: immediatamente, alla destra della Vergine sono disposti i 12 apostoli, seguiti poi dai Santi, fra i quali si riconoscono San Francesco d’Assisi e San Francesco da Paola, quasi contigui ai martiri, che hanno preferito la soppressione della loro vita terrena in vista di quella eterna; seguono poi le Vergini, fra le quali emerge S. Caterina d’Alessandria, dal grande eloquio filosofico, che la ruota dentata del supplizio a cui fu condannata non riuscì a stroncare, per cui si rese necessaria la sua decapitazione; infine, un gruppo di venerandi profeti, disposti alla sinistra della Vergine, chiude e conclude il grandioso affresco, che Vito Antonio De Filippis terminò nel 1705.
Ai lati della cupola, tre lunettoni ospitano altrettante tele, che, con scene assunte dall’Antico Testamento, mostrano l’onnipotenza di Dio, senza della quale non potrebbe esserci la Chiesa trionfante.
Sul fondo, con colori baluginanti, che danno già essi il senso della tragedia, il Mar Rosso si apre e inghiotte l’armata del faraone: a nulla serve il recalcitrare dei cavalli o il loro tentativo di cambiare direzione, poiché la potenza che Dio conferisce al Mar Rosso sovrasta e fagogita tutto ciò che è alla sua portata.
Nel lunettone di sinistra, poi, un probabile Assuero, il grande re dei Persiani, sta banchettando, mentre viene servito da tre fanciulli ebrei, forse per rimarcare la differenza nei confronti del popolo ebraico, allora in cattività a Babilonia, che, su consiglio della regina Ester, era impegnato nel digiuno di tre giorni.
A destra, ancora Assuero con la regina Ester, figura emblematica dell’Antico Testamento per la sua bellezza e per il suo coraggio, assicura la salvezza a tutti gli Ebrei e condanna a morte Aman, il suo perfido consigliere, che aveva architettato un piano per sterminare i discendenti di Mosè.
Le tre tele sono opere di Nicola Gliri (Bitonto 1631-1680), che proprio nella città confinante con Modugno fondò una sua scuola, dopo essersi formato soprattutto a quella di Carlo Rosa, suo maestro. Il Gliri ottenne molti riconoscimenti in tutta la Terra di Bari e le sue opere sono presenti in tante città (oltre a Modugno, Bari, Andria, Acquaviva, Bitonto, Conversano, Molfetta, Palo del Colle). Nel 1658 egli, con i suoi discepoli, fu chiamato dal priore della Basilica di San Nicola di Bari a realizzare le lunette della cripta, che ancora oggi si possono ammirare. Si tratta di un pittore che presenta i temi sacri con “una sua personale interpretazione, in chiave di edulcorata religiosità, dei problemi luministici” (C. Gelao, La vergine appare al Beato Reginaldo d’Orléans, scheda, in www.pinacotecabari,.it).
Quello della tecnica luministica fu il problema centrale della pittura del Seicento, mirante ad una figurazione fortemente caratterizzata da contrasti di luce e ombra o da tocchi di luce risaltanti su un fondo scuro, che fu particolarmente praticata e sviluppata in Puglia da molti pittori, fra i quali, oltre al Gliri, sono da annoverare Carlo Rosa (Giovinazzo, 1613 – Bitonto, 1678), pittore assai familiare ai Modugnesi per via soprattutto della ricca quadreria della Chiesa di Santa Maria del Suffragio, e Cesare Fracanzano (Bisceglie, 1605 – Barletta, 1651), la cui scuola fu forse frequentata negli anni giovanili dall’autore delle nostre tre tele dei tre lunettoni.
Infine, gli ultimi restauri, coordinati come quelli precedenti dall’arch. Fernando Russo -che in un suo breve intervento ha affermato che c’è tanto ancora da recuperare- hanno portato alla luce un affresco che rappresenta un’Annunciazione del tutto particolare per il suo significato teologico: fra l’angelo Gabriele e la Vergine vi è un tabernacolo, che custodisce la Salutaris Ostia, grazie alla quale viene assicurata agli uomini di tutti i tempi la continua incarnazione di Cristo. Quell’affresco, certamente precedente al completamento della chiesa, ha il merito di coniugare il tema dell’Annunciazione, che dà senso e nome alla chiesa, all’Eucarestia, che è il fondamento della Confraternita del Santissimo Sacramento.
Dietro l’altare, in due nicchie laterali vi sono le statue lignee reliquiarie, di buona fattura, di San Castore e San Basileo, opera di maestranze del Seicento, due santi del IV secolo, il cui culto non è presente nei territori di Terra di Bari.
Fra le due nicchie laterali vi è un grande “reliquario del Seicento in legno dorato, diviso in 28 caselle, che custodisce le reliquie di oltre 57 Santi e Martiri” (M. Ventrella, a cura di, Chiesa Maria SS. Annunziata, p. 7). In questo reliquario, precisamente nella casella n. 4, si troverebbero “due falangi del dito di San Corrado, racchiuse in una piccola custodia di bronzo, recante incise le lettere S. C.” (N. Milano, Curiosando per Modugno, p. 61). E San Corrado il Bavaro ci porta indietro al Medioevo, al ramo interno della Via Traiana e al Santuario di Sancta Maria ad criptam, più noto come “Madonna della Grotta”, che su quella antica via romana insisteva, dove egli, ritornando dalla Terra Santa “morì e fu sepolto nell’inverno del 1126-1127” (M. L. De Palma, La capë dë Sện Ghërrarë, p. 13). Le due falangi di San Corrado, patrono di Molfetta, si trovano a Modugno a partire dal 1303, quando i Molfettesi si impadronirono della salma del Santo, alla quale una donna modugnese riuscì a strappare un dito subito dopo che essa fu posta su un carro trainato da due buoi, prima che abbandonasse la nostra città.
Insomma, il cappellone del “Santissimo” è uno scrigno di arte e di storia, che merita di essere scoperto da tutti i Modugnesi. E a sollecitare la città a riappropriarsi di tanta parte della sua storia, della sua arte e della sua spiritualità è stato don Nicola Colatorti, che ha organizzato domenica 20 novembre il “Concerto Inaugurale” nel cappellone del Santissimo. Dopo aver richiamato il grande lavoro fatto dalle maestranze della “Ditta d’Organi Zanin” di Udine, la più antica bottega organaria d’Italia, fondata nel 1823, e dopo aver informato che il restauro dell’organo settecentesco è stato reso possibile dal contributo assicurato dalla CEI (Commissione Episcopale Italiana), con fondi derivanti dall’8 per mille, e dalla Regione Puglia, don Nicola ha invitato il consigliere regionale Peppino Longo e lo stesso dott. Francesco Zanin a dare il loro saluto.
Efficace ed assai interessante l’intervento di Francesco Zanin, che ha dato un giudizio particolarmente positivo dell’organo modugnese del 1723: “Pur essendo piccolo -ha solo 200 canne- il suo suono è perfetto. L’accurato esame degli elementi ha permesso di constatare l’alta qualità dello strumento di pregevole fattura in ogni sua parte”. Poi, ha condotto tutti i presenti alla scoperta dell’anima nascosta dell’organo, illustrando brevemente gli interventi fatti su di esso: il crivello, il somiere; il ventilabro, ovvero il “labbro del vento”, i mantici e così via dicendo¹. Insomma, un approccio veramente avvincente alla struttura di un organo antico, che ancora oggi ha un indiscutibile fascino.
La cantoria e l’organo del Settecento
(questa e le foto che seguono sono di Marco Pepe)
Poi, in una atmosfera di sospensione, di assoluto silenzio e di – è proprio il caso di dirlo- sentita religiosità, hanno cominciato a risuonare le note dell’organo settecentesco (Gilberto Scordari), e poi della tiorba (Paola Ventrella); del violone (Davide Milano); della viola da gamba (Antonella Parisi), del cornetto (David Brutti), -che ha catturato in particolare l’attenzione di Emilia, la mia nipotina più grande, per via della sua familiarità con il suo flauto traverso- dei tre sackbut² (Andrea Angeloni, Stefano Bellucci, Danilo Tamburo). E con gli strumenti si sono elevate verso il Cielo le note del piccolo-grande coro a voci dispari dell’Ensemble vocale Florilegium vocis. Il canto di nove soli cantori (Monica Papa, Monica Caputi, Giusi Bottalico, soprani; Anna Giordano, Giovanna Greco, alti; Marco e Gaetano Manzo, tenori; Michele Dispoto e Roberto Portoghese, bassi) ha riempito ogni angolo della nostra antica Chiesa Matrice, facendone rivivere i tanti messaggi che essa porge al fedele col suo soffitto ligneo di Domenico Scura, con le sue tele, con i suoi numerosi simboli, che affondano le loro radici nella “Buona Novella”; quei nove cantori, fra l’altro, mi hanno riportato indietro nel tempo e mi hanno fatto rivivere la mia piccola esperienza alla “Schola Cantorum” dell’indimenticabile don Luigi Minerva, a cui devo il mio amore per la musica classica in generale e a quella sacra in particolare. Strumenti e voci erano coordinati armonicamente dal direttore Sabino Manzo.
Già il primo brano, “Toccata avanti la messa”, di Girolamo Frescobaldi (1583-1643), l’unico dei brani eseguiti che io conoscessi, ci ha immerso nella nuova atmosfera dell’arte vocale e strumentale del Seicento del compositore ferrarese, mettendo in risalto una nuova sensibilità musicale, che “trova corrispondenza nelle immagini delle arti plastiche e nelle sontuose architetture del Barocco”; val qui la pena di sottolineare che lo stesso J. S. Bach si applicò a copiare ed assimilare le meraviglie organistiche del Frescobaldi. Poi i brani successivi, vocali e/o strumentali sono stati ora un tripudio di voci e di suoni per esaltare la Vergine, i Santi e soprattutto Dio, ora una preghiera sommessa che ha sospinto al ripiegamento interiore. L’acme, almeno per quanto mi riguarda, è stato raggiunto dal “Magnificat” di Michel’Angelo Grancini (1605-1669), del quale sono stati eseguiti altre 4 composizioni, fra le quali la bella “Missa brevis”. Due altri brani, solo per organo. di Johan Caspar Kerll (1627-1697), anche lui destinato ad influenzare Bach, hanno offerto il giusto completamento ad un primo approccio alla musica barocca, che, fra l’altro, è caratterizzata in sommo grado dall’uso della fuga e frequentemente da passaggi difficili e assai veloci, per cui la sua esecuzione richiede l’abilità, anzi il virtuosismo, dei musicisti e del solista. E tutti, voci e strumenti, e certamente l’organista, che utilizzava una tastiera, quella del nostro organo settecentesco, fatta solo di tre ottave complete, che lo impegnavano ad un intreccio di movimenti per cambiare velocemente i registri, sono stati assai virtuosi.