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Da mille anni Balsignano conserva il suo nitore per questi uomini ingrati

Anno X N. 4,3 Maggio,Giugno 1988
Ivana Pirrone

L’attesa per il restauro dell’antichissimo casale medievale di Balsignano (Modugno) dura ormai da decenni, senza che se ne veda una soluzione a breve termine. Il suo promesso risanamento e restauro è passato per tutti i «progetti» più o meno fantasiosi prodotti in questi anni dalle Istituzioni ed Enti preposti alla tutela, ma non vi è ancora nulla di concreto. Intanto, il complesso monumentale del villaggio medievale (chiese, mura di cinta, castello) è in via di avanzato degrado e si moltiplicano gli atti di vandalismo a suo danno.
Il 20 marzo l’Adirt (Associazione Difesa Insediamenti Rupestri e Territorio), in collaborazione con «Nuovi Orientamenti», ha organizzato una visita di studio al Casale ed un incontro con la cittadinanza e le autorità cittadine modugnesi, al fine di sensibilizzare l’opinione pubblica al problema Balsignano e cercare una soluzione che garantisca la salvaguardia ed un uso corretto di quell’irripetibile complesso architettonico. Erano presenti: Serafino Bruno, in rappresentanza dell’amministrazione comunale allora in carica, la redazione di Nuovi Orientamenti, la prof. Maria Labriola, presidente Adirt, il dott. Nino Lavermicocca, della Soprintendenza Archeologica, numerosi cittadini.
L’Adirt intende proseguire il suo impegno su Balsignano ed essa, al fine di scoraggiare ogni inerzia, stimolare ancora una volta coloro ai quali è demandato il compito della tutela e sollecitare l’adesione della pubblica opinione alla risoluzione del problema Balsignano, organizzerà a Bari presso il Fortino S. Antonio una Mostra didattica dei disegni, delle ricerche e delle riflessioni messe per iscritto da ragazzi della scuola elementare che hanno visitato il Casale. L’illustrazione dell’esperienza sarà affidata alla prof. Franca Pinto Minerva ed alla dott. Silvia Godelli, in data che sarà resa pubblica a mezzo stampa quotidiana.

Vi sono tante buone leggi ma Balsignano è sempre più diruto

20 marzo. Una tiepida mattina di sole, la campagna è un trionfo di verde. Sotto il cielo azzurrissimo, la cupola di S. Felice in Balsignano risplende. Il nitore delle sue belle pietre antiche spicca contro l’azzurro. È ancora lì, miracolosamente in piedi. E noi siamo andati ad officiare il suo rito funebre. Invece, battendo tutte le scommesse, come quei vecchi a cui tutti danno ormai poche ore di vita e loro vivono, vivono e vivono, finché ne hanno voglia, come quei vecchi, dicevo, Balsignano, malgrado tutto, è qui. Sempre più diruto: nel castello il tetto è in parte crollato; nel muro di cinta l’antica porta è istoriata dalla rosa dei pallini di chi ha voluto, qui, provare le cartucce; negli affreschi, scaglie malinconiche ed impallidite volano via.
Nella chiesa di S. Maria di Costantinopoli non si può entrare o, meglio, forse si potrebbe, spostando un certo tufo che mura la finestra, ma è meglio non farlo, e non farlo vedere a chi ci è accanto. Potrebbe voler tentare. A che, poi? Aumenterebbe solo il rammarico. Meglio affondare il piede nell’erba, meglio prestare orecchio al bla bla di chi promette che presto Balsignano potrà essere restaurata. Anzi, si dice, tornerà alla vita. C’è la legge tale, o la tal altra… si potrebbe, si dovrebbe… Il mormorio delle voci, il ritmo delle ipotesi, l’avvicinarsi delle promesse diviene un indistinto rumore di fondo.
No, non vi aspettate qui una cronaca fedele. Nel ricordo le promesse dei politici, le speranze di chi ama questo luogo, si intrecciano e si ingarbugliano in una indistricabile matassa.
E poi, poi il giorno appresso pioveva, l’erba non era più così verde, né il cielo così azzurro, i politici, ahimè, decadevano con le loro promesse; i piani, le speranze trovavano fine in un silenzio disperante.
Sole, le pietre bianche di Balsignano conservavano il loro nitore, come fanno per questi uomini ingrati fin dall’anno Mille.

La storia di Modugno inizia con otto soldi

Anno X N. 1/2 Gennaio - Aprile 1988
Raffaele Macina

Intorno alle origini di Modugno, oltre che al significato del suo stesso nome, non sono mancate delle ipotesi interpretative che, come spesso è accaduto nella storia locale, discendono non tanto da una effettiva ricerca documentaria quanto da libere ed arbitrarie supposizioni, alle quali, peraltro, una certa tradizione orale ha assicurato vasta eco. In tal senso, un prima ipotesi vorrebbe Modugno fondata addirittura nel VI sec. a.C. da greci provenienti dalla città di Medon della Macedonia o dalla città di Modon della Messenia. Una seconda ipotesi, pur non precisando il secolo, vedrebbe anch’essa la città fondata dai greci che qui avrebbero costruito un luogo forti­ ficato, il castello della «Motta», dal quale sarebbe dapprima derivato il nome Mottugno e poi quello di Modugno. In realtà, il primo documento nel quale viene menzionata Modugno risale al maggio del 1021, anno in cui venne stipulato un regolare contratto su un prestito di 8 soldi che obbligava il debitore a dare in pegno al suo creditore una vigna sita «in.., loco Medunio».
La collocazione delle origini di Modugno nel secolo XI ha il pregio, peraltro, di accordarsi con le più significative testimonianze architettoniche ancora presenti nel suo territorio: al secolo XI risalirebbero il complesso di S. Maria di Modugno e il santuario della Madonna della Grotta; lo stesso casale fortificato di Balsignano, oggi abbandonato ad un inarrestabile degrado, si sarebbe sviluppato fra il X e LXI secolo. In tale prospettiva, il nome Meduneum deriverebbe da «in medio», in quanto il nuovo nucleo abitativo sorse quasi a metà strada fra Bari e Bitonto, due città già importanti nel secolo XI, oltre che antagoniste fra di loro, alle quali la prima popolazione modugnese dovette di volta in volta rapportarsi con prudenza ed equilibrio per conquistarsi la sua autonomia. In armonia con le sue origini, Modugno ha come simbolo il «cardo selvatico», pianta che esprimerebbe lo spirito di indipendenza (nelle sue vicinanze non crescono altre erbe) e la capacità di risollevarsi da situazioni difficili (il cardo rispunta agevolmente dopo che i campi siano stati arsi o distrutti). In effetti, Modugno si è sempre sforzata di mantenere lo stato di «città regia», grazie al quale poteva godere di maggiore autonomia, e per ben due volte, nel 1582 e nel 1734, si riscattò dal servaggio feudale, pagando rispettivamente ad un certo Ansaldo Grimaldi di Genova, che l’aveva acquistata, la somma di 40.000 ducati e al re Carlo III di Borbone, che l’aveva nuovamente messa in vendita, 18.000 ducati. Un momento assai significativo della sua storia è quella che va dal 1465 al 1557, quando Modugno, con Bari e Palo del Colle, dapprima fu alle dipendenze del dinamico ducato di Milano degli Sforza e in seguito, a partire dal 1499, fu governata da Isabella d ’Aragona e dalla figlia Bona Sforza. In tale periodo si stabilirono nella città diverse famiglie milanesi, vicentine e veneziane, i cui membri divennero animatori di intense attività commerciali. I fatti storici più rilevanti, ancora oggi ben presenti nella memoria popolare, si riferiscono agli eventi del 1799, quando Modugno aderì alla Repubblica Partenopea, subendo per questo le minacce dei gruppi sanfedisti che tentarono di assalirla il 10 e il 21 marzo

Un primo passo per il recupero di Balsignano

Anno V N. 6 Novembre, Dicembre 1983
Raffaele Macina

Finalmente l’operazione «recupero Balsignano» è partita: il consiglio comunale di Modugno, nella seduta del 29 ottobre, ha deliberato su proposta della giunta di ricorrere all’esproprio dei resti di quello che fu uno dei più importanti casali medievali fortificati della regione Puglia.

La procedura di esproprio, afferma il sindaco prof. Angelantonio Corriero, si è resa necessaria per la indisponibilità del proprietario ad avviare una seria trattativa col Comune di Modugno e con gli altri enti (Provincia, Regione e Sovrintendenza per i beni ambientali architettonici di Bari), interessati al recupero e al restauro del Casale di Balsignano.

La prassi di esproprio sarà avviata sulla base della legge n. 1089 del 1-6-1939 che, all’art. 54, prevede che il ministro per i beni culturali e ambientali autorizzi, su richiesta, i comuni ad espropriare fondi o cose che siano di pubblica utilità e che abbiano un importante valore storico-artistico.

Non c’è dubbio che il Casale di Balsignano rientra nello spirito dell’art. 54 della legge sopra citata: la sua utilizzazione, infatti, non potrà essere che pubblica e, in particolare, esso potrà ritornare a vivere non solo con la collocazione al suo interno di specifiche attività artigianali e artistiche, ma soprattutto con saggi di scavi che potranno portare alla luce reperti di grande significato e con visite guidate di studenti, universitari e non, che avranno davanti ai loro occhi la struttura di un casale medievale; d’altra parte, per quanto riguarda il valore storico-artistico di Balsignano, vi sono numerosissime testimonianze e pubblicazioni che lo documentano.

Per intendere questo secondo aspetto, bisogna tenere presente che la prima documentazione storica sul Casale di Balsignano risale all’anno 962 e che essa, poi, nei secoli successivi diventa sempre più copiosa. L’intero Casale fu distrutto nel 988 in seguito ad una scorreria saracena, fu subito ricostruito e donato nel 1092 dal duca normanno Ruggero alla lontana abbazia benedettina di S. Lorenzo di Aversa che, a sua volta, lo concesse dal XIII secolo in poi a numerosi signorotti; fu devastato una seconda volta nel XVI sec. dalle truppe francesi e spagnole che ebbero come teatro di guerra i territori della provincia di Bari.

Il Casale di Balsignano è, dunque, un esempio illuminante di quel processo di trasformazione del panorama agrario dell’Italia meridionale bizantina che trasformò molti piccoli centri rurali in luoghi fortificati.

Attualmente nel Casale di Balsignano vi sono: la chiesa di San Felice (San Pietro) del sec. XI, i resti del castello del sec. X con un corte interna, la chiesa di S. Maria di Costantinopoli del sec. XIV. Si tratta di un complesso di indubbio valore storicoartistico e soprattutto la chiesa di San Felice è stata oggetto di attenzione da parte di molti studiosi: fra questi ricordiamo soltanto G. Ceci, il francese Bertaux, A. Vinaccia, V. Faenza, N. Milano; attualmente si occupano di Balsignano A. Venditti dell’Università di Napoli e A. Pepe dell’Università di Bari.

Il Casale di Balsignano, dunque, è stato sempre al centro dell’attenzione degli studiosi sia per la sua unicità, all’interno della Puglia, sia per il suo valore artistico.

Pertanto le premesse per un esito positivo della procedura di esproprio ci sono. Auguriamoci che il Comune di Modugno, rafforzato dalla Sovrintendenza per i beni monumentali architettonici, dalla Provincia e dalla Regione, sappia portare avanti la procedura con speditezza ed efficacia.

I resti di Balsignano, infatti, sono al limite del recupero, un anno e persino un mese potrebbero essere fatali e le future generazioni non potrebbero comprendere e perdonare disinteresse o lungaggini verso questo gioiello di architettura e di storia insieme che, per la sua importanza, riveste un ruolo regionale e nazionale.

Balsignano, prima chiara e coraggiosa posizione dell’amministrazione comunale

Anno V, N. 4 Luglio,Agosto 1983
Prof. Raffaele Macina

Il convegno su Balsignano, organizzato dalla nostra rivista in gennaio, forse, incomincia a dare i suoi primi risultati sia pure a distanza di sette mesi. Infatti una lettera del sindaco, Angelantonio Corriero, inviata all’avv. G. Lacalamita, proprietario del fondo su cui insiste il Casale di Balsignano, mette ben in evidenza tre concetti chiave del convegno: Balsignano riveste un ruolo storico-archeologico di eccezionale rilievo all’interno della Puglia e dell’intera Italia meridionale; la tutela e la conservazione del Casale sono due precipui interessi di tutta la collettività; è necessario che il comune di Modugno acquisisca al suo patrimonio i resti di Balsignano per ottenere finanziamenti regionali e nazionali.
Questa lettera, che pubblichiamo nel riquadro qui accanto, ha una importanza indiscutibile e dovrà costituire un punto fermo in tutta l’azione che si dovrà svolgere per la soluzione del “problema Balsignano”. La sua importanza è ulteriormente rafforzata dal fatto che è stata redatta in assenza di una qualsiasi stimolazione politica di partiti e di gruppi consigliari, sia di quelli di maggioranza sia di quelli di minoranza. E questa una nota negativa che, d’altra parte, è il segno più emergente di una certa paralisi politica che sembra coinvolgere in forme diverse tutte le sezioni locali dei partiti. In altri tempi, certamente, ci sarebbero state prese di posizione su un convegno che, forse unico nella storia di Modugno, ha visto la partecipazione di più di mille persone, l’interesse e la divulgazione da parte di reti televisive nazionali e locali e di quotidiani.
Invece, dopo il convegno nessun partito o gruppo consigliare, nonostante le nostre continue sollecitazioni, ha ritenuto di dover presentare un ordine del giorno in consiglio comunale o comunque di intraprendere una iniziativa su Balsignano. E questo avviene quando la problematica culturale è stata messa al centro addirittura del dibattito congressuale di alcuni importanti partiti.
A suscitare e a mantenere vivo l’interesse per Balsignano, pertanto, siamo rimasti, in questo periodo, solo noi di «Nuovi Orientamenti»; naturalmente ciò ci ha esposti anche a facili e superficiali critiche che, per lo più, miravano a mettere in discussione la centralità di Balsignano, da noi volutamente attribuita ad alcuni numeri.
A queste critiche rispondiamo ribadendo e ripetendo che Balsignano è l’unico esempio di Casale medievale presente in Italia meridionale, i cui resti sono ancora ben evidenti e possono essere oggetto di restauro; ciò basta a dare un eccezionale risalto sulla nostra rivi­ sta e a ritornare sull’argomento, anche a rischio di ripeterci, perché su questa grande testimonianza storico­ archeologica ci sia l’interesse di strati sempre più ampi della popolazione e si intraprendano le necessarie azioni politiche.
Un primo risultato, come dicevamo, l’abbiamo ottenuto con questa lettera del sindaco che non è poca cosa, in quanto in essa è manifestata la volontà dell’amministrazione comunale di entrare comunque in possesso di Balsignano, anche – se necessario – con eventuali “procedure espropriative’’. E questa una posizione chiara, il cui merito, in mancanza di azione politica di partiti e gruppi consigliari, va ascritto in generale all’amministrazione comunale e in particolare al suo responsabile, il sindaco Angelantonio Corriero,
Noi ci auguriamo che dopo questa lettera le forze politiche locali prendano seriamente in considerazione “il problema Balsignano” e si impegnino realmente per la sua soluzione, altrimenti si rischierebbe – e questo è già accaduto per il 1982 e per il 1983 – di non ottenere alcun finanziamento, per cui i 17 miliardi, previsti per la Puglia per gli itinerari turistico-culturali, andrebbe­ ro a finire altrove e per il recupero di testimonianze che non hanno certamente l’importanza e la peculiarità di Balsignano. Oltretutto la promozione di un intenso dibattito po­ litico su Balsignano avrebbe il merito di rendere chiare e di dominio pubblico le proposte di soluzione e di restauro.
In questi mesi sono circolate diverse voci: disponibilità della Regione a stanziare una congrua somma per l’acquisizione del suolo; limitazione dell’intervento al solo perimetro delle due chiese (S. Pietro e S. Maria di Costantinopoli); coinvolgimento del proprietario.
Noi pensiamo, e d’altra parte il convegno si espresse chiaramente, che l’intervento di recupero non può fermarsi al solo perimetro delle chiese, ma deve interessare innanzitutto anche il castello e una vasta area circostante che, a giudizio di molti studiosi (sull’argomento abbiamo ricevuto delle importanti pubblicazioni del Prof. A. Venditti dell’Università di Napoli), riveste un eccezionale valore archeologico.
È impensabile, d’altra parte, che il comune entri in possesso solo delle due chiese, mentre il castello, eventualmente restaurato col denaro pubblico, resti nelle ma­ ni del privato; così come è impensabile che siano fatte concessioni che potrebbero deturpare l’equilibrio archi- tettonico e storico del Casale.
Riteniamo che si debba dialogare fino in fondo e con chiarezza con i proprietari e che questi debbano essere coinvolti, ma il recupero di Balsignano deve realizzarsi nell’interesse storico-culturale che può essere difeso sol­ tanto con l’assunzione di responsabiltà da parte degli enti pubblici. D ’altra parte sarebbe assurdo che lo sta­ to spendesse decine di miliardi per interessi non collettivi.
E, come fu detto nel convegno, il primo passo, il più importante da compiere, è quello dell’acquisizione al patrimonio pubblico dell’intero territorio su cui insiste il Casale di Balsignano. Le premesse positive, a tale proposito, ci sono: c’è la possibilità di ottenere finanziamenti regionali previsti dagli itinerari turistico- culturali; c’è la disponibilità, dichiarata verbalmente in sede di convegno, certamente ancora da concretizzare in forme e modalità precise, da parte del proprietario; c’è la volontà dell’amministrazione comunale; c’è, infine, l’interesse e la partecipazione della gente.
L’amministrazione comunale, quindi, vada avanti e faccia seguire a questa sua importante lettera azioni più incisive che, comunque, portino al risultato prioritario di acquisire al patrimonio comunale il Casale di Balsignano, perché senza di ciò non è possibile intervenire realmente e ottenere i finanziamenti regionali e nazionali. A tale proposito è bene che tutti sappiano che Balsignano non ha ottenuto per il 1982 e 1983 alcun finanziamento dalla commissione regionale alla cultura, nonostante il comune ne avesse fatto richiesta, perchè esso non è, appunto, di proprietà comunale.
Noi cercheremo ancora di svolgere il nostro ruolo e ci proponiamo per il prossimo autunno di organizzare un incontro al quale partecipino le amministrazioni comunali di Modugno e di Bitritto (paese certamente interessato al problema), l’assessore regionale alla cultura, la Provincia, la Soprintendenza ai beni monumentali architettonici, il proprietario di Balsignano; tale incontro, però, dovrà essere soltanto operativo e soprattutto dovrà risolvere i principali nodi che ancora oggi paralizzano l’intera questione.
Ai partiti e alle forze politiche rivolgiamo un caldo invito a prendere seriamente in considerazione il “problema di Balsignano” e ad agire senza steccati pregiudiziali, ma in modo unitario, perché questo primo passo dell’amministrazione comunale sia rafforzato e seguito da altri.

Lettera a firma del Sindaco, prof. Angelantonio Corriero

N. 14847 di Protocollo

Egregio Avvocato,
il problema del recupero “Balsignano", che con “S. MARIA DI COSTANTINOPOLI” e “CASTELLO”, rappresenta un insieme inscindibile di eccezionale valore storico, sta subendo una battuta di arresto a causa del mancato titolo patrimoniale di questo comune. I recenti dibattiti e convegni tenuti sul comprensorio e gli interventi pubblicati sulla rivista culturale “Nuovi Orientamenti", oltre che i numerosi articoli di stimolo e propositivi apparsi sulla Gazzetta del Mezzogiorno, hanno fatto di Modugno una dimora storica nel senso che i beni storico- ambientali rappresentano un patrimonio comune in quanto testimoniano la vita e la civiltà di Modugno in un processo evolutivo degli uomini del passato.
Ne consegue, allora, che la responsabilità della tutela e conservazione di Balsignano e i suoi ruderi è non solo della civica amministrazione ma di tutti i cittadini. L’Amministrazione ha mosso tutti i passi possibili presso la Soprintendenza ai Beni Ambientali e Architettonici e l'Assessorato Regionale alla Cultura, approntando la documentazione del caso, purtroppo il finanziamento non può realizzarsi perché questa Amministrazione non può dimostrare la proprietà del rudere di “Balsignano".

D ’altronde, Lei ben sa che, appunto per la finalità di Istituto dei predetti Enti, non può essere concesso contributo statale per immobili di proprietà privata il cui valore storico-ambientale non può essere messo a beneficio culturale della collettività. Pertanto, mi richiamo ai nostri contatti verbali sull’argomento e, più specificatamente, sulla possibilità di acquisizione del comprensorio da parte di questa Amministrazione comunale per conoscere le Sue reali intenzioni con viva raccoman­dazione di un benevole vaglio della situazione, onde evitare eventuali procedure espropriative che potrebbero essere messe in atto.
In attesa di cortesi Sue notizie, Le porgo distinti saluti.

IL SINDACO
(Prof. Angelantonio Corriero)

Balsignano nell’attualità di un itinerario

Anno IV – n. 4,5 Novembre 1982
Prof.ssa Adriana Pepe

I suggestivi ruderi dell’antico «casale» di Balsignano caratterizzano (ma fino a quando, ancora?) la porzione sudorientale dell’agro modugnese (a circa 3 Km. dal centro abitato, lungo la carrozzabile per Bitritto, e richiamano alla memoria la lunga continuità di insediamento (X-XVI see.) e le molteplici trasformazioni dei livelli di vita di quella comunità contadina, in larga misura rifluita nella vicina Modugno. In altra occasione mi sono soffermata a considerare i problemi strutturali e le situazioni culturali testimoniate dalle superstiti fabbriche dell’interessante complesso.
Oggi, il riesame dei più antichi documenti che menzionano Balsignano, induce ad alcune considerazioni in merito alla configurazione di quel sito e del suo intorno, quale possiamo desumerla dalle «chartae» medievali e quale si presenta ai nostri giorni. In uno strumento di suddivisione di beni redatto nell’anno 962, il «castello» in «loco Basiliniani», con i fabbricati rustici, le attrezzature agricole e i poderi ad esso adiacenti, si situa sulla cresta di una «lama», e assume come punti di riferimento, per la designazione dei confini di proprietà, una «via publica» ed una «via antica. Con maggior precisione, nell’atto di donazione del 1092, con cui il duca normanno Ruggero e sua moglie Adele offrono «Basi- linianum» e le sue pertinenze alla lontana abbazia benedettina di S. Lorenzo di Aversa, l’area del casale trova un suo preciso limite in un asse viario — la «stratam magnam que vadit ad predictam civitatem bari» —, che assicura le comunicazioni dell’area modugnese con la costa e con il vicino centro urbano. Il riferimento ad un «montem supra ip-sum castellum» e ad una «valle episcopii barensis», completano il quadro antico, ma ancora oggi identificabile, di questo ambiente naturale fertile di oliveti, vigneti e alberi da frutta.
Fra X e XI secolo, dunque, Balsignano si sviluppa come nucleo insediativo fortificato, in posizione eminente e in un’area servita da una diramata viabilità locale, nonché da un asse viario a dimensione territoriale, — la «mulattiera» menzionata già da Strabone — che da tempi antichi collegava Butuntum a Caelia, passando per Modugno, e offriva un percorso alternativo interno al tracciato principale della via Traiana. Al di là del caso particolare, la ricca documentazione del Codice Diplomatico Barese testimonia, nella medesima epoca, l’esistenza di una fitta rete di tracciati viari che innerva l’intero territorio pugliese, sovrapponendosi alla viabilità primaria delle grandi arterie romane — la via Appia e la Traiana —, che ancora in età medievale costituiscono le direttrici fondamentali delle invasioni, dei pellegrinaggi e dei traffici meridionali. Mulattiere e strade carraie, talora scavate lungo i costoni calcarei di lame e gravine (le «viae», «vicinales», «semites», «strictae» ecc. delle «char- tae») si diramano capillarmente, collegando le città costiere in crescente espansione a un habitat rurale ancora fittamente segnato dalla presenza di casali fortificati, di villaggi scavati nei banchi rocciosi, di monasteri extraurbani, con le lo ro più o meno estese aziende agricole.
Questo articolato sistema di collegamenti fra centri di consumo e luoghi di produzione, fra centri di potere e nuclei insediativi periferici, si conserverà per secoli, tutto sommato efficiente, nell’immobile contesto di una società ancora sostanzialmente agricolo-feudale. Le troppo rapide trasformazioni degli ultimi decenni, il radicale mutamento dei quadri di vita e dei modelli culturali, hanno profondamente alterato quel plurisecolare assetto. Le testimonianze superstiti dell’antico habitat rurale, ancora numerose, ma frammentarie e spesso dimensionalmente modeste — i ruderi di Balsignano come quelli di Pacciano, presso Bisceglie, S. Maria delle Grotte come Ognissanti di Valenzano, per citare qualche esempio — risultano decontestualizzate rispetto ad una situazione di squilibrati e discutibili rapporti fra nuclei urbani e ambiente rurale; restano emarginate rispetto all’attuale circuito di comunicazioni veloci (strade ferrate, autostrade, aeroporti) e, quindi, sottratte alla fruizione collettiva. Riflessioni forse ovvie, ma che mi sembra valga la pena di proporre, in considerazione di un degrado — dell’ambiente e dei manufatti — che va inesorabilmente accelerandosi in misura direttamente proporzionale all’emarginazione e alla disattenzione. Il recupero al circuito della memoria di quelle preziose, anche se non vistosamente «emergenti» testimonianze, non può restare affidato alla buona volontà e alla vivace attività di pochi operatoti culturali locali.
Né sembra ormai metodologicamente corretto orientare l’intervento soltanto verso il singolo oggetto. Perché quei resti riassumano in pieno il proprio ruolo di presenze vere in un sistema di reciproci rapporti; devono essere reintegrati in una diversa dinamica territoriale che li veda, ancora una volta, poli di interesse per una collettività che si assuma, insieme con l’eventuale proprietario privato, la corresponsabilità del recupero, della gestione e della tutela.
Nel numero di dicembre del 1980 di «Nuovi Orientamenti», Raffaele Licinio proponeva, come ultima e più attendibile ipotesi per il recupero e il riutilizzo, di assumere Balsignano in un generale disegno di «itinerario storico-artistico» nel quale questa, e le altre significative presenze delle campagne limitrofe, nuovamente interrelate, si offrano ad una più moderna «didattica della storia».
Oggi, quell’ipotesi sembra trovare una possibilità di pratica applicazione nell’ambito del recente «progetto speciale», elaborato dai Ministeri per i Beni Culturali e per gli Interventi straordinari per il Mezzogiorno, denominato «Itinerari turistico culturali». Impostato sul concetto che i beni culturali costituiscono «la risorsa primaria dalla cui valorizzazione possono derivare quegli effetti economici e sociali a lungo ricercati per assicurare al Mezzogiorno una reale partecipazione alla crescita generale del Paese», il progetto dovrebbe offrire una nuova prospettiva per una conservazione autenticamente attiva, integrata all’uso sociale. L’ampia risonanza che gli «Itinerari» stanno avendo presso Amministrazioni locali e organi di stampa, è certamente positiva per la sensibilizzazione di più vasti strati di opinione pubblica al problema del recupero e della gestione delle memorie, ma rischia di trasformare quelle stesse memorie in un nuovo bene di consumo.
Occorre che nella pratica attuazione, oltre che nello spirito del progetto, gli obiettivi della «valorizzazione a fini culturali» e della «valorizzazione a fini sociali» si compongano in un preciso equilibrio con quello della «valorizzazione a fini economici». In altri termini, che Balsignano e il suo intorno, ricco di numerosi altri contenitori abbandonati, segni altrettanto preziosi del nostro passato, venga recuperato alla coscienza e alla fruizione collettiva come sede di servizi o come centro di attività produttive artigianali, non solo come meta per un turismo frettoloso, distratto e spesso deturpante. Modugno risulta inserito, con altri centri dell’entroterra a sud di Bari (Valenzano, Sannicandro, Binetto, Bitetto, Noicattaro, Conversano), nell’itinerario caratterizzato dalla «cultura arabo, bizantina, normanno, sveva»: ci auguriamo tutti che l’occasione non vada sprecata.

Balsignano può tornare a vivere

Anno II N. 5-6 Dicembre 1980
Prof. Raffaele Licinio

Nell’ambito del nostro progetto di recupero del patrimonio artistico modugnese, pubblichiamo un interessante contributo per la valorizzazione del casale di Balsignano del dott. Raffaele Licinio, assistente di Storia Medievale presso l’Università degli Studi di Bari.

I recenti articoli apparsi su «Nuovi Orientamenti» a proposito di due notevoli «emergenze» del territorio modugnese, ponevano una serie di problemi che, opportunamente, non riguardano semplicemente la necessità di descrivere e ricordare, di quelle emergenze, le vicende storiche, artistiche, culturali. Il menhir che sorge sulla statale 98, a stretto ridosso dell’impianto viario, e l’insediamento di Balsignano, situato sulla provinciale che congiunge Modugno a Bitritto, pur espressioni qualitativamente differenti di due società e di due concezioni del mondo profondamente lontane tra loro, sono colti dalla rivista all’interno di un unico contesto, che qui possiamo sintetizzare come «linea dell’attenzione e della riappropriazione». Attenzione alla storia, ma anche attenzione alle valenze folkloriche di queste fonti del passato: ne è valida conferma la favola-leggenda sul «moneke de Medugne» (Nuovi Orientamenti», n. 2, maggio 1980), che più di ogni altro esempio indica la linea di continuità di segno culturale del menhir nei secoli, del suo valore simbolico-cerimoniale e nella sua forte carica di rappresentatività sociale in rapporto all’evolversi della mentalità popolare modugnese.
Sulla necessità di evitare la distruzione di questa pietra capace ancor oggi di «parlare» alla coscienza collettiva, recuperandole un rapporto meno precario e più duraturo con l’ambiente, si è già espresso un primo intervento, che ha avuto il merito di restituire attualità ed urgenza alla questione, ormai giunta al punto di non-ritorno. Si tratta di far presto, indubbiamente: ma l’urgenza è una caratteristica, per così dire, «fisiologica», nell’intera Puglia, e non solo per questo genere di «monumento». Proprio qualche settimana fa è stata lanciata dagli studenti di Pisignano, una frazione del Comune di Vernole, in provincia di Lecce, un’allarmata denuncia dello stato in cui è oggi ridotto il menhir che sorge in località Trisciole, utilizzato (non senza qualche ironia), più come «albero della cuccagna» che come oggetto di riflessione culturale e di indagine storica.
Certo, non c’è bisogno di spingerci sino in Salento: lo scempio e, in diversi casi, la totale distruzione dei dolmen della zona di Bisceglie sono sotto gli occhi dell’opinione pubblica, almeno di quella che gli occhi non intende chiudere. E tuttavia, esistono una attenzione ed un interesse comunque più diffusi verso queste testimonianze preistoriche, che nei confronti dei resti, nel contado, dell’età medievale.
È una constatazione spiegabile agevolmente se guardiamo, ancora una volta, all’esempio modugnese del «monaco», se ci rendiamo consapevoli, in altri termini, del mondo in cui la tradizione popolare si è impadronita, assorbendole e modificandole, di queste presenze di civiltà remote; proprio perché avvertite come lontane ed estranee, esse sono state rielaborate e rivissute secondo una concezione più strettamente legata alla cultura e alla realtà sociale del presente.
Si obietterà che le principali «fonti in pietra» prodotte nel Medioevo, le cattedrali, i palazzi nobiliari, le chiese e i monasteri urbani, non sono state abbandonate all’incuria: nella maggior parte dei casi, esse sono lì, conservate e restaurate, a segnalare il ricordo di tecniche costruttive, simbologie del potere, devozioni culturali, modi di vita. Ed invece, molto c’è ancora da fare, se solo si consideri l’ingente numero di piccole chiese, disseminate nelle nostre campagne, che solo l’opera di vivacissimi gruppi locali (come a Bitonto, per citarne uno soltanto) sta tentando di sottrarre ad uno stato di degrado pauroso, o quando ci si soffermi sul costante deperimento dei nuclei residenziali rurali (Balsignano, per l’appunto). È inutile sottolineare quanto, nella scelta sin qui compiuta nelle operazioni di salvaguardia e riutilizzo, abbia contato e conti il carattere essenzialmente urbano della società e della cultura contemporanei, che tendono a privilegiare, del passato, l’immediatamente visibile (e usabile), dunque quanto appare loro «significativo» nel contenitore- città, e a relegare in secondo piano il prodotto del mondo contadino, avvertito come «arcaico».
Com’era Balsignano, come oggi si presenta, ed in quale progetto dimensionarne la valorizzazione? Nel secolo X, al quale risale la prima testimonianza scritta, «Basilinianum» appare semplicemente un «locus» dotato di un castello che è posto in relazione ad un gruppo etnicamente definito (è detto dalmata): un piccolo nucleo produttivo, in definitiva, soggetto al pari di tanti altri ad un fenomeno di incastellamento tipico di una società che si va militarizzando e feudalizzando, ed abitato essenzialmente da agricoltori. Alla fine del secolo successivo, quando, piccolo momento di una ben più vasta politica filo benedettina dei conquistatori normanni, viene fatto oggetto di donazione all’abbazia aversana di S. Lorenzo, il «locus» si è ormai sviluppato in casale, un villaggio rurale dotato di case, strumenti e locali di lavoro, di campi arati, seminati e utilizzati a vigneti e uliveti. Balsignano produce da questo momento in poi rendite (in natura e in danaro) di non trascurabile entità, tanto da far gola a numerosi piccoli feudatari. Impoverito dalla crisi della metà del Trecento, il villaggio, che aveva raggiunto un numero di abitanti valutabile sulle 300 unità circa, subisce la sorte comune ad altri insediamenti rurali: il deperimento progressivo, causato anche dalla vicinanza di più importanti nuclei urbani (Modugno, in questo caso), e l’abbandono definitivo, poi, in seguito a vicende belliche.
Attualmente, di quello che era stato un villaggio vivo e pulsante di attività, rimangono in piedi le mura, il castello semidiruto, la chiesa interna di S. Maria di Costantinopoli (con alcuni affreschi), e, all’esterno del cortile, la malridotta chiesa di S. Felice (o S. Pietro), i cui affreschi sono ormai del tutto scomparsi, come del resto è accaduto alle case contadine. Ciò che ci è dato ancora vedere di Balsignano (e non è poco), non è, tuttavia, tutto ciò che sarebbe possibile vedere o conoscere. Una oculata campagna di scavi porterebbe certamente alla luce elementi conoscitivi nuovi, tali non solo da agevolare la ricerca storica, ma anche da focalizzare con maggiore sicurezza l’aspetto e la destinazione dell’intero complesso (oggi di proprietà della famiglia Dilillo).
Ma lo sguardo proiettato al passato (com’era Balsignano) o rivolto al futuro (cosa diventerà), non deve mai sorvolare le necessità del presente. E il presente coincide immediatamente con un intervento che sia insieme di salvaguardia, restauro e riutilizzazione: tre fasi da sviluppare contemporaneamente, se non si vuole correre il rischio di proteggere Balsignano dai danni del tempo e del disinteresse, per farne poi un semplice guscio vuoto, o, al contrario, di avviare un dibattito responsabile sull’uso del casale, per poi accorgersi che intanto questo è caduto a pezzi, e che ne restano soltanto fotografie e articoli vari.
Qualunque operazione su questo patrimonio deve sapersi muovere in una dimensione di contemporaneo impegno su piani diversi, respingendo le pur motivabili tentazioni del «prima questo, poi quest’altro». Dunque, va bene confrontarsi su Balsignano e sulle forme del suo utilizzo, purché lo si faccia «mentre» si interviene per impedirne la scomparsa. Auspicabile sarebbe, per esempio, un «mese del recupero» (naturalmente, di tutto il patrimonio culturale modugnese), per orientare l’intera opinione pubblica sulla gravità della situazione; auspicabili sarebbero, anche, «manifestazioni simboliche di occupazione», destinate a catturare l’attenzione degli strumenti di informazione. Intanto, si possono stabilire alcuni punti fermi.
Balsignano non deve diventare un museo. Usciamo da una grande stagione di riflessioni sui musei, in particolare su quelli contadini, che anche in Puglia ha favorito la nascita di numerose esperienze di questo genere. Ma perché il museo contadino non torni ad assumere l’aspetto e la funzione di un cristallizzato «paradiso» atemporale, occorre che esso sia realmente il frutto di un rapporto profondo con il proprio passato, e su un ambito territoriale significativo, non compresso e ristretto all’interno del singolo paese, della singola località.
Una eccessiva frantumazione di questi musei non gioverebbe ad un’immagine globale e complessiva della cultura contadina (espressione già in sé da discutere), e sarebbe senza dubbio indice di un nuovo sussulto di quell’antico provincialismo che troppe iniziative ha sacrificato sull’altare della fierezza «di campanile».
Ancora, Balsignano non deve diventare un luogo di agriturismo, sia perché, storicamente, non è mai stato questo il suo segno distintivo (un casale medievale è ben diverso da una masseria, anche da quelle medievali), sia soprattutto per una questione di fondo. Qualche merito all’agriturismo va assegnato, ma in sostanza esso sembra presentarsi (quando non presenti la campagna come idilliaco « ritorno alla natura ») come la faccia nascosta di una medaglia coniata da una logica ormai diffusissima, la logica della cultura predatrice, ovvero di quella « cultura del profitto » (per adoperare una felice espressione di Luigi Lombardi Satriani) che, « consumando » il fatto folklorico, assegnando strumentalmente al segno del passato un « valore », ne distorce profondamente il significato. O si riesce a restituire a Balsignano il suo segno storicamente formatosi, che è quello di un luogo di produzione rurale collettiva in cui si sono incrociate e fuse, sul piano della vita quotidiana, le esperienze di migliaia di uomini, o cioè si riesce a farlo «funzionare come un casale», e attraverso questo funzionamento lo si qualifica come «museo vivente», oppure, sciaguratamente, lo si riduce a bucolico, superficiale e inattendibile stereotipo della «vita in campagna». Ma chi può credere che, nel desolante panorama degli attuali rapporti tra presente e passato, possa trovare una positiva conclusione un’operazione che punti, per la prima volta in Puglia, a rivitalizzare un casale medievale, almeno su un piano di nuova didattica della storia? Ben altri sono gli esempi di «museo vivente» che la cultura del profitto ci ha consegnato: per tutti, basti pensare al caso del borgo antico di Bari, su cui si sono puntati gli artigli di un «edilturismo» che si proclama puro e disinteressato cultore di storia e folklore.
Non rimane, allora, che un’ultima ipotesi. Presso la «lama» su cui sorge Balsignano passava il ramo interno dell’antica via Traiana. Attraverso quell’asse viario, il casale ha intessuto legami di ogni genere con altre comunità rurali, le cui tracce esistono tuttora. Chi rilegga l’articolo di Adriana Pepe sulla chiesa di S. Felice («Nuovi Orientamenti», n. 4 ottobre 1980), potrà percepire chiaramente i legami e i riferimenti che, in Terra di Bari, disegnano sul territorio un « itinerario storico-artistico » di grande interesse, che si sgrana, per fare solo qualche nome, dal casale di Giano, in agro di Bisceglie, all’abbazia di Cuti presso Valenzano, toccando tra l’altro le campagne bitontine (con le loro chiesette) e quelle di Ceglie del Campo, e passando presso lo stesso «monaco» (al quale, a mio parere, andrebbe evitato ogni spostamento, che ne reciderebbe il significato rispetto allo spazio ambientale originario). Un itinerario, dunque, che valorizzerebbe una serie di testimonianze del passato, e le recupererebbe almeno ad un uso didattico dal respiro più complessivo; un itinerario in cui la singola fonte (restaurata e, naturalmente, custodita) si qualificherebbe non in sé, ma nelle sue relazioni con le precedenti e le successive; un itinerario su cui indirizzare e far crescere flussi di ricerche, gruppi di operatori culturali, soggetti del mondo scolastico (ed anche, ma solo a queste condizioni, flussi turistici); un percorso, infine, scandito tappa per tappa da una particolare caratterizzazione e finalizzazione del singolo insediamento. Un itinerario da approfondire e verificare sollecitando gruppi organizzati, istituzioni e singoli cittadini. Ma presto, senza perdere altro tempo.

La chiesa di san Felice in Balsignano

Anno II N. 4 Ottobre 1980
Adriana Pepe

Proseguendo la nostra indagine sul patrimonio artistico di Modugno, avviata nell’ultimo numero della rivista con un intervento sul «menhir», pubblichiamo in questo numero uno scritto della dott.ssa Adriana Pepe, assistente di Storia dell’Arte presso Università degli Studi di Bari, autrice di uno studio sulla Chiesa di S. Felice in Balsignano e promotrice di un saggio di scavo, recentemente compiuto, i cui risultati saranno pubblicati prossimamente sulla nostra rivista. L’articolo che qui presentiamo è una sintesi di un intervento della dott.ssa Pepe estratto dagli «Atti del Primo Simposio Internazionale di Arte Armena — 1975». (a cura prof Serafino Corriero).

Nell’ambito delle ricerche relative al folto gruppo di edifici medievali pugliesi con copertura a cupola, già da tempo gli studiosi hanno segnalato l’interessante esempio della piccola chiesa diruta di S. Felice in Balsignano.
L’edificio, ben visibile a distanza per l’alto tamburo ottagonale su cui si imposta la cupola estradossata, si erge a guardia dei cospicui resti del casale fortificato di Balsignano, a pochi chilometri da Bari, in prossimità del percorso di una antica strada che già in età romana collegava Butuntum (Bitonto) a Caclia (Ceglie).
Rimandiamo ad altra occasione lo studio organico dell’intero insediamento, per altro assai interessante per le sue vicende storiche, e relativamente ben conservato nelle sue strutture fondamentali (la cinta di mura che si stende nella campagna con andamento grosso modo quadrangolare; i suggestivi resti del castello, chiusi da un secondo alto recinto e, nella corte interna, la chiesa di S. Maria di Costantinopoli, curioso organismo a crociere ogivali, sul quale si innesta, all’altezza del transetto, un secondo vano coperto da una botte trasversale a sesto ribassato). Solo, in questa sede, ci sembra utile delineare alcuni momenti particolarmente significativi della lunga via del borgo, perché in essi trovino il necessario sfondo storico i molteplici e ancora insoluti problemi architettonici relativi alla chiesa di S. Felice.
La prima notizia del casale di Balsignano ci viene da una pergamena della basilica barese di S. Nicola, nella quale un tale Teofilatto, nel maggio del 962, dividendo con i fratelli dei beni immobili toccatigli in eredità in «loco Basiliniano», assume come punti di riferimento un «castello» ed una «terra qui vocat castellutzo de ipsi dalmatini».
Dunque, almeno dalla seconda metà del X sec. Balsignano, in posizione strategica a difesa di un’antica via e di una fertile «lama», era fortificato; possiamo quindi considerarlo un significativo e forse precoce esempio di quel processo di progressiva modificazione delle strutture agrarie dell’Italia meridionale bizantina, che, secondo recenti studi, fra la fine del X e l’XI sec. trasformò numerosi villaggi rurali in centri fortificati e punteggiò di pyrgoi (torri), di kastra e di kastellia il paesaggio agrario del Catepanato.
Distrutto nel 988 da una scorreria saracena, presto ricostruito, Basilinianum cum omnibus pertinentiis suis fu donato nel 1092 dal duca normanno Ruggero alla lontana abbazia benedettina di S. Lorenzo di Aversa, e dal XIII sec. in poi fu concesso dagli abati aversani ad una lunga serie di signorotti. Le ultime notizie risalgono ai primi decenni del XVI sec., quando il casale dovè essere devastato dalle truppe francesi e spagnole che in quelle campagne si contendevano il possesso dell’Italia meridionale.
Se le vicende del borgo risultano abbastanza ben documentate, stranamente non esiste alcun documento relativo alla fondazione e alle fasi di costruzione della chiesa di S. Felice, sicché il nostro discorso non può che rimanere a livello di ipotesi.
Nonostante sia la chiesa di un borgo rurale, il piccolo edificio i distingue per il misurato equilibrio delle sue proporzioni, per l’accurata fattura della stesura muraria, a conci calcarei perfettamente tagliati e uniti da pochissima malta, per la sobria eleganza dei pochi elementi decorativi.
All’interno, l’unica navata, conclusa da un’abside semicircolare, è coperta da una volta a botte che risulta tagliata, al centro, da una sorta di corto braccio trasversale, contenuto entro il perimetro murario. All’incrocio, su archi longitudinali e trasversali salienti, si imposta l’alto tamburo della cupola, raccordato al quadrato di base da pennacchi sferici. Le pareti risultano articolate da piatte nicchie di alleggerimento delineate da archi a ghiera lunata. La longitudinalità dell’aula viene dunque annullata dal palese riferimento alla croce contratta, e l’ingresso, aperto dal lato meridionale, costituisce un ulteriore suggerimento ad un invaso spaziale organizzato in funzione della cupola centrale. In forma sintetica possiamo ricordare come questa tipologia — la sala a cupola —, che unisce l’organicità della soluzione strutturale ad un costante riferimento alla simbologia della croce, abbia avuto larga e lunga diffusione in tutta l’area del Mediterraneo orientale, nelle provincie periferiche dell’impero bizantino.
Particolarmente significativa, inoltre, ci sembra la presenza di un gran numero di edifici rispondenti a tale tipo lungo la costa dalmata: tutti edifici di dimensioni assai modeste e databili all’ epoca della dinastia croata, fra IX e XI sec.
Che poi si tratti di una tipologia sviluppatasi autonomamente nelle singole zone o diffusasi dall’area asiatica, dove sono attestati gli esempi più antichi, lungo precise correnti di traffici mediterranei, non è facile stabilirlo su basi storicamente sicure, in mancanza di una precisa cronologia di molti di questi edifici.
Anche sull’altra sponda adriatica, in Puglia, il tipo della sala a cupola compare assai di frequente in piccole chiese rurali, correntemente datate fra XI e XII sec. e significativamente addensate entro un’area ristretta, lungo la costa barese (tra Bari e Trani) e nell’immediato entroterra.
Rispetto a S. Felice in Balsignano, tuttavia, queste chiesette hanno tutte un carattere più rustico, che si evidenzia in particolar modo nel paramento murario, per lo più a filari di conci irregolarmente tagliati, e nell’innesto non altrettanto equilibrato dei volumi. La sola S. Maria di Giano, in agro di Bisceglie, mostra, per lo meno all’interno, più strette affinità con la chiesa di Balsignano, mentre la chiesa urbana di S. Margherita a Bisceglie, precisamente datata al 1197, offre l’espressione più colta, raffinatamente signorile, del medesimo tipo.
Per quel che riguarda l’esterno, S. Felice presenta uno stereometrico incastro di volumi emergenti l’uno dall’altro.
Se il tutto dovesse essere coronato da un tetto piramidale, come nelle altre chiese pugliesi a schema longitudinale ricoperte da cupole in asse, è molto dubbio.
Altro elemento insolito, fra le chiese pugliesi di questo periodo, l’abside, che, all’esterno, assume un andamento pentagonale. Non è dato sapere se la parete ovest, evidentemente crollata in seguito a chissà quali eventi e successivamente rabberciata alla meglio, sia mai stata concepita come facciata e se vi sia mai stato aperto un portale. Tuttavia, la straordinaria importanza che assume il lato meridionale, il solo articolato da un elegante motivo ad archetti alternativamente pensili e su paraste, fa supporre che questa sia sempre stata considerata la vera facciata della chiesa.
Ancora una volta è possibile il riferimento ad un altro monumento pugliese, la chiesa di S. Leo nardo a Siponto — situata in uno dei maggiori scali di pellegrini da e per l’Oriente —, al cui fianco settentrionale, solcato da un analogo motivo di archetti e lesene, il fastoso portale conferisce valore di facciata principale.
I confronti invocati più di frequente per la chiesa di Balsignano guardano alla costa dalmata. Nel caso specifico, tuttavia, ci sembra di poter riconoscere nel S. Felice in Balsignano un gusto architettonico più immediatamente ricollegabile a quello dell’Oriente caucasico: basti considerare il chiaro controllo dei volumi squadrati, la tersità compatta della struttura muraria, il gusto per la materia lapidea accuratamente tagliata. Anche alcune soluzioni alquanto insolite per la tradizione pugliese, quali l’abside pentagonale, l’ingresso principale sull’asse nord-sud, l’accentuazione del valore simbolico della cupola per mezzo del concio tagliato a stella, che ne costituisce l’elegante chiave di volta, ci sembrano «citazioni» abbastanza dirette di modi largamente diffusi sia nella tradizione architettonica bizantina che in quella delle aree medio-orientali.
Ora, se è vero che il documento del 962, prima citato, testimonia in « loco Basiliniano » una precoce presenza balcanica (castellutzo de ipsi dalmatini), e se è vero che i rapporti fra il casale di Balsignano e l’opposta sponda adriatica non dovettero mai venir meno, dal momento che ben più tardi, nella seconda metà del XIII sec., un Giacomo da Balsignano è documentato «signore di Valona», è anche vero che il nostro casale si trova a poca distanza da Bari e da Ceglie, sedi di cospicue colonie armene documentate almeno dal X sec.
Il problema degli apporti culturali potrebbe essere, almeno in parte, chiarito da una precisa datazione del monumento, se il silenzio delle fonti e la malaugurata perdita degli affreschi che decoravano l’interno (ne restano, qua e là, frammenti illeggibili) non ci obbligasse, allo stato attuale degli studi, ad una ipotesi di datazione assai larga e cauta, basata solo su confronti formali.
La chiesa benedettina di Ognissanti di Cuti, presso Valenzano, situata lungo il percorso della medesima antica via e databile con buona certezza agli ultimi decenni dell’XI sec., pur obbedendo al tipo delle chiese longitudinali ricoperte con tre cupole in asse, suggerisce un plausibile paragone per l’analoga concezione dei volumi, stereometricamente compatti, e per la tersa regolarità dei paramenti murari, oltre che per il motivo dentato che orna, all’interno, il riferimento alla chiesa di S. Maria di Giano presso Bisceglie, non più tarda della fine dell’XI sec.
Tuttavia, che la nostra chiesa sia posteriore a quelle di Valenzano e del casale di Giano, sembrerebbe dimostrarlo il fatto che nell’atto di dona zione ai benedettini di Aversa, in cui pur si fornisce l’elenco particolareggiato di tutte le proprietà agricole del casale di «Basiliniano», non compare alcun cenno alla chiesa di S. Felice; sicché possiamo forse assumere la fine dell’XI sec. come termine post quem per la sua costruzione e il 1197, anno riferibile alla già citata chiesa di S. Margherita di Bisceglie, come termine ante quem. Si tratta certo di un lasso di tempo molto ampio, ma gli scarsi elementi in nostro possesso non ci consentono di avanzare un’ipotesi di datazione più precisa: forse, assumendo ancora una volta come ter mine di paragone la chiesa di S. Leonardo a Siponto, che risale, nelle strutture originarie, circa ai primi decenni del XII sec., possiamo trovare un ulteriore appiglio a favore di una collocazione cronologica della nostra chiesa entro la metà del secolo.
Difficile formulare ipotesi, infine, circa il momento in cui venne addossato al lato settentrionale della chiesa un secondo corpo rustico costituito da un’unica navatella absidata, traslata in avanti rispetto al corpo principale e suddivisa in due campate coperte da cupolette leggermente ellittiche; altrettanto difficile chiarire la funzione di questo corpo aggiunto, che, per il Venditti, sarebbe stato addossato molto più tardi, per aumentare la capienza della chiesa primitiva.
Tuttavia, alcuni particolari costruttivi [l’accurata fattura degli archi che assicurano il passaggio fra i due ambienti e dei pilastri su cui si impostano le tracce di affresco estese su tutta la superficie interna dell’ultimo pilastro a nord-ovest; la ghiera di un arco, ben visibile, al l’esterno, sulla parete settentrionale, cui malamente si appoggia l’informe massa della navatella aggiunta], fanno supporre, con qualche cautela, che l’attuale «corpo rustico» non sia che il tardo rifacimento di un secondo ambiente sin dall’origine in comunicazione con il corpo principale. Di più non possiamo azzardare: solo un saggio di scavo a livello delle fondazioni, ci dirà qualcosa di preciso in proposito.
Per concludere, ci troviamo di fronte ad un edificio costruito quasi certamente al tempo dei benedettini aversani, ma secondo una concezione spaziale e volumetrica tributaria più dell’oriente che dell’occidente, caso non raro in un contesto culturale come quello pugliese, in cui si fondono e si elaborano originalmente elementi occidentali, bizantini e orientali di varia provenienza, sulla base di complesse e ben note vicende storiche.

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