Una struggente storia d’amore ambientata nella Balsignano medievale
Anno XXXIV N.152 Ottobre 2012
Raffaele Macina
Devo al sig. Vito Sciannimanico la conoscenza di questa bella e struggente storia d’amore di due giovani, lei figlia del feudatario di Balsignano, lui figlio, forse, del suo massaro o comunque di gente di rango inferiore. Quando l’ho ascoltata mi è parso subito di essere davanti a una sorta di “Giulietta e Romeo” in versione balsignanese. Sino alla prima metà del Novecento, la tragica storia dei due giovani era ancora tramandata oralmente fra i Modugnesi e soprattutto fra quelli che possedevano un appezzamento di terreno nella contrada di Balsignano.
È il caso, appunto, di Sciannimanico, proprietario di un fondo rustico di famiglia nei pressi del casale medievale, che ci tiene a sottolineare di aver appreso la storia dalla viva voce di suo nonno, il quale, a sua volta, l’aveva ascoltata dal padre: insomma, si tratta dì una narrazione che ci riporta indietro nel tempo, almeno alla fine del Settecento o agli inizi dell’Ottocento.
Non è stato difficile individuare nel racconto di Sciannimanico alcune importanti allusioni alle vicende storiche di Balsignano: il signore del casale che non pagava i censi annuali; il riferimento alla pittura toscana; i rapporti fra Balsignano e quella pittura. Sono state, forse, proprio queste allusioni a catturare la mia attenzione (e un po’ anche la mia fantasia, insieme a quella delle mie due nipotine), tanto che ho cominciato a contestualizzare storicamente la storia d’amore dei due giovani, ad arricchirla di particolari, a dare nomi e volti più precisi ai protagonisti. È nata, così, questa versione di “Adelasia e Giovanni da Balsignano”, che, se conserva l’ossatura del racconto di Sciannimanico, è una rivisitazione personale della struggente storia d’amore dei due giovani.
Questo nuovo racconto leggendario si aggiunge ad altri due, da noi già pubblicati nel passato - "U Sindeche de Valzegnane" (N. 4/5 1982, p. 10) e "La beffa del tesoro" (N. 3 1983, pp. 18-19) - che testimoniano come l’antico casale fosse un importante punto di riferimento anche per la cultura popolare della città. (R.M.)
Un tempo viveva a Balsignano la bella Adelasia, figlia di Fiammetta de Montefuscolo e di Roberto della Marra, signore e capitano dell’antico casale. Adelasia, dopo un’infanzia trascorsa in modo spensierato e sereno nei vicoli e fra le case di Balsignano, confondendosi in mille giochi con i suoi coetanei anche di umile origine, era giunta alla giovane età e, come il suo nome preannunciava, si distingueva per una grande nobiltà d’animo. Quanto il padre era borioso e dispotico verso i Balsignanesi, ormai rassegnati ai suoi soprusi e ai suoi maltrattamenti, tanto lei era dolce, amorevole e solidale verso tutti. Se Roberto rincorreva piaceri e disegni per procurarsi in qualsiasi modo il denaro necessario a sostenere la sua vita smodata, Adelasia, presa com’era dall’amore per l’arte e per la natura, rivolgeva tutto il suo interesse alle piccole cose, nelle quali ritrovava sempre sollecitazioni al bello e alla serenità d’animo, tanto minacciata dal clima che regnava nella casa patema. Insomma, Adelasia, che aveva perduto la madre in tenera età, non sembrava affatto la figlia di Roberto della Marra. Ogni mattina ella si impegnava in lunghe passeggiate per le campagne e per i boschi, che allora erano folti e numerosi in quella contrada. I contadini, che attendevano il suo passaggio, non appena il suo armonioso profilo si delineava da lontano, lasciavano il lavoro, raccoglievano qualche primizia e le andavano incontro offrendogliela amorevolmente. Se i Balsignanesi non furono mai protagonisti di atti di ribellione verso il loro signore e lo sopportarono con fiera rassegnazione, non fu per paura di eventuali punizioni e ritorsioni, ma per l’affetto nei confronti di Adelasia, la cui sola presenza suscitava in loro sentimenti di pace e propositi che trascendevano la loro dura realtà quotidiana. Un giorno, però, accadde qualcosa di particolare, destinato a cambiare radicalmente la vita di Adelasia e la storia di Balsignano. Come ogni mattina, ella aveva cominciato da un pezzo la sua passeggiata per i campi ed era già vicina al grande bosco che allora ricopriva il letto e i costoni di un lungo tratto di lama Lamasinata. Si inoltrò per lo stretto sentiero che, fra una vegetazione fìtta e secolare, scorreva sul ciglio del costone destro e, dopo qualche centinaio di metri si fermò, come faceva ogni volta, perché proprio lì si apriva davanti agli occhi un quadretto della natura, che lei non si stancava mai di contemplare.
Ai piedi del costone, la fitta vegetazione scemava e, in quel punto, nel letto della lama si formava una radura quasi circolare, in cui la natura celebrava il trionfo dei suoi colori e dei suoi odori: ciuffi di ciclamini si accompagnavano a veri e propri bouquet di margheritine; qua e là svettava il papavero che si alternava con un fiore bianco, che i bambini chiamavano ombrello; manti soffici di pratoline e tappeti di camomilla indicavano il tratto da percorrere per giungere ad un piccolo stagno che, ai piedi dell’altro costone, contribuiva a rendere ancora più idilliaco quel luogo. Lì il silenzio, cui faceva da compagno il canto dell’usignolo, si esprimeva in tutta la sua realtà e sospingeva il passante alla contemplazione.
Anche quella mattina Adelasia dapprima diede uno sguardo d’insieme alla radura e poi, come sempre, si soffermò a contemplare i particolari di ogni angolo. Poneva in questo suo compito giornaliero molta cura, poiché veniva rasserenata dall’osservare che tutto fosse rimasto come il giorno precedente. Quella quiete e quel senso di sospensione del tempo erano diventati per lei una sorta di unguento necessario per addolcire i momenti tristi da trascorrere in casa.
Stava quasi terminando la sua minuziosa contemplazione, quando dietro un cespuglio, lì a ridosso dello stagno, intravide la sagoma di un uomo, fermo e in piedi. Aprì bene gli occhi, si mise la mano alla fronte per poter scrutare meglio, ma non riuscì a cogliere alcun elemento utile a capire chi fosse quell’uomo e cosa stesse facendo lì nel “suo” angolo.
Fece qualche metro e, come sempre, ma questa volta con più lena del solito, guadagnò il piccolo sentiero scosceso che portava nella radura. Ora, quanto più si inoltrava, tanto più la sagoma indefinita cominciò ad acquistare contorni precisi. Dapprima capì che quella era la sagoma di un uomo di giovane età, il cui abbigliamento ricercato era inusuale fra i contadini di Balsignano; poi notò che aveva lo sguardo fisso verso qualcosa che gli era di fronte; infine, quando arrivò a metà della radura, il delinearsi di un cavalletto sul quale era poggiata una grande tela sciolse finalmente il mistero: si trattava di un pittore. «Un pittore qui a Balsignano?» si chiese Adelasia. «E chi l’ha chiamato? E da dove viene? E cosa sta dipingendo nel “mio” luogo?» Tutta presa da questi interrogativi, allungò il passo, si avvicinò allo stagno e, giunta ad una decina di metri dal cavalletto, si fermò dietro ad un secolare pino mediterraneo, tese il collo e aguzzò la vista per scoprire che cosa quel pittore stesse dipingendo. Purtroppo, il cavalletto era interamente circondato dal cespuglio che, formando lì un semicerchio assai folto, impediva la vista della tela. Per di più, il giovane, tutto intento nella sua opera, non aveva sollevato neppure per un istante gli occhi dalla sua creatura. Adelasia, per segnalare la sua presenza, fece un leggero colpo di tosse. Il pittore sobbalzò, si girò di scatto e, riconoscendo subito la giovane donna, che pure era quasi interamente coperta dal pino, afferrò un panno e coprì la tela; poi, dominato da un profondo turbamento, restò lì immobile con lo sguardo quasi smarrito. «Ma tu, tu sei Giovanni di maestro Leone» disse Adelasia, avvicinandosi a lui. La sua voce, alquanto tremula, non esprimeva soltanto sorpresa, ma anche quella gioia controllata che si prova quando dopo lungo tempo si rivede una persona alla quale si è uniti dall’affetto maturato nell’infanzia. Lui, figlio di un maestro d’ascia, lei, discendente dello storico casato dei Della Marra, erano amici di gioco nella loro comune infanzia, anzi erano gli amici. «Ma come mai sei qui? Maestro Leone mi ha sempre detto che sei a Siena in una grande bottega di frescanti» disse Adelasia, rompendo quel silenzio fatto di impaccio che si era impadronito dei due giovani dopo essersi salutati.
«Ricordi quando vennero qui i frescanti per dipingere nell’abside della chiesa di Santa Maria di Costantinopoli quel meraviglioso “Cristo in Maestà”, che viene fuori da una mandorla, e poi tutte le altre figure di angeli, apostoli e santi?» rispose lui. «E come dimenticarlo! Quando incominciarono ad affrescare, stavamo insieme incantati sotto i palchetti e invano i pittori ci dicevano di allontanarci, di andare via: eravamo completamente rapiti dalla genesi e dal graduale delinearsi della figura su quell’intonaco bianco e ancora fresco. Poi, purtroppo, morì mia madre, e a me non fu più concesso di uscire liberamente. Mio padre mi diceva che non ero più una bambina e mi impose di frequentare solo ambienti e persone compatibili col nostro rango.» «Tu, allora, forse non sai che io finii col diventare il garzone dei frescanti: facevo di tutto pur di stare lì a vederli all’opera mentre erano impegnati al massimo delle loro capacità e delle loro risorse, poiché un errore o un segno maldestro avrebbe pregiudicato il tutto se rintonaco si fosse asciugato. Quando i lavori furono ultimati, mi chiesero se li volessi seguire, e a me sembrò di toccare il cielo con un dito. Ora sono anch’io un frescante e faccio parte della bottega di Duccio Sanese» «Come mai sei qui? La tua bottega ha avuto una commissione da queste parti?»
«No, no, qui ormai nessuno pensa ad un affresco. Sono qui per aiutare mio padre, ormai vecchio, nei lavori della mietitura, poi ripartirò subito». I due giovani si immersero nei ricordi della loro infanzia, ricordarono gli amici comuni, ricordarono soprattutto i giochi innocenti che li impegnavano per le viuzze e le piazzette di Balsignano. Adelasia, disponendosi al sorriso, cominciò a ricordare il loro gioco preferito: quello del serpente. Prendevano un panno scuro e piuttosto lungo, lo attorcigliavano in modo che sembrasse un serpente e, dopo averlo legato per la coda con lo spago, lo posavano seminascosto al centro di un crocicchio. Intanto, loro due, al riparo dell’angolo di una casetta, non appena vedevano arrivare qualcuno, agitavano lo spago facendo assumere al panno scuro i movimenti di un vero serpente. La sorpresa e lo spavento dell’ignaro passante erano assicurati, così come assicurate erano anche le colorite invettive. Ne ricordarono alcune, e risero molto. Ora i due sembravano aver ritrovato la familiarità e la vicinanza della loro infanzia, tanto che fu naturale per Adelasia chiedergli che cosa stesse dipingendo. Giovanni, però, si irrigidì subito e, pur non manifestando un esplicito diniego, rispose vagamente e disse che si trattava di cosa di poco conto. L’indisponibilità del giovane a rendere partecipe dell’opera la sua antica compagna di gioco raffreddò alquanto quell’inizio di recuperata familiarità, e a tutti e due non restò che salutarsi. Giunta al castello, Adelasia notò che anche quel giorno suo padre era impegnato in colloqui con rappresentanti di conti e baroni della Terra di Bari. Inutilmente, anche questa volta chiese quale fosse il motivo del continuo andirivieni di dignitari, giudici e notai. La risposta di Roberto della Marra era sempre la stessa: problemi di giurisdizione feudale. Non fu facile per Giovanni e Adelasia superare la notte: tutti e due si rimproveravano di aver troncato sul nascere quell’atmosfera delicata e di grande impatto emotivo che si ha quando due persone, già unite da tanti momenti vissuti insieme da bambini, si ritrovano per la prima volta dopo molti anni. Quante volte, rigirandosi nel letto, Giovanni si rimproverò di aver gettato quel panno sulla tela. Certo, questo lo avrebbe messo a nudo, ma, almeno, non sarebbe stato lui a interrompere bruscamente l’incanto di quell’incontro. Adelasia, mordendosi le labbra, non finiva di chiedersi come mai proprio lei, sempre discreta e riservata, avesse fatto quella colpevole domanda. Tutti e due attendevano con ansia l’alba, proponendosi in qualche modo di cercarsi e di riprendere i loro ricordi dal punto in cui li avevano interrotti. Come sempre, ma prima del solito, la mattina del nuovo giorno Adelasia incominciò la sua quotidiana passeggiata. In verità, la sua andatura questa volta era spedita, i suoi occhi non si soffermavano su cose e persone che incontrava e il suo saluto ai contadini, se non mancava di cortesia, era piuttosto sbrigativo. Insomma, si capiva che aveva una meta ben precisa da raggiungere quanto prima possibile. Giunse sul ciglio della radura col cuore che le arrivava in gola: era stata assalita per tutto il tragitto dal dubbio di ritrovarsi lì sola. Fissò subito il cespuglio e intravide il cavalletto che reggeva la tela. Il suo passo ora divenne veloce. Più si avvicinava e più l’immagine del dipinto appariva maggiormente definita: dapprima avvistò una immagine sacra indistinta, poi intravide il volto di una Madonna, infine scorse il profilo di una Santa Maria di Costantinopoli. Quando si fermò a pochi metri dalla tela ebbe quasi un sussulto: i lineamenti di quella Madonna richiamavano quelli del suo viso. Si avvicinò ancora di più, si fermò, fissò intensamente l’immagine e non ebbe più dubbi: quel volto ritratto a forma di Madonna era il suo volto.
Si guardò intorno e vide seduto su un masso a ridosso dello stagno Giovanni, che, incrociando i suoi occhi, le disse: «Capisci ora perché ieri ho coperto la tela? Ti piace? L’ho completato questa notte.»
Lei non rispose. Pensava a quel suo viso ritratto così fedelmente, alla dolcezza, alla serenità e a quella atmosfera sospesa che esso emanava; pensava anche che Giovanni aveva sempre conservato in qualche angolo dell’anima la sua immagine, evidentemente l’immagine della sua madonna. Si avvicinò a lui, gli allungò la mano e lo aiutò ad alzarsi.
I due giovani, da sempre presi l’uno dall’altro, camminarono e camminarono, dicendosi tutto, progettando il loro futuro. Fu bella ed innocente quella mattinata per loro, ma fu terribile il ritorno alla realtà.
Dopo essersi salutati, dichiarandosi una infinità di volte fedeltà eterna, Adelasia non era ancora giunta al castello, quando due servi, spuntati in lontananza da un viottolo, agitando le mani e, chiamandola più volte, la invitarono a fermarsi: portavano l’ordine del padre di presentarsi subito al suo cospetto. «È assai strano che lui mi cerchi. Chissà cosa ha da dirmi.» disse fra sé.
Un dubbio, però, si impadronì di lei mentre si affrettava a raggiungere il castello: pensò al patrimonio di famiglia, composto prevalentemente dalla dote della madre, andato perduto per la vita dissoluta del padre; ricordò l’ingiunzione del camerario di Bari che ordinava di pagare i censi annuali, evasi da tanto tempo, alla lontana abbazia di Aversa, proprietaria del feudo di Balsignano; rivide lo sguardo del tutto particolare che i rappresentanti di diversi baroni e conti della Terra di Bari le rivolgevano quando la incrociavano per i corridoi, per le scale o nella corte interna del castello.
«Che l’ordine di presentarmi al suo cospetto abbia a che fare con tutto questo?» si chiede va, mentre bussava alla porta dello studio del padre.
«Sì, sì, entra e siediti là» disse con voce metallica Roberto della Marra, continuando a leggere il documento che aveva sullo scrittoio.
L’espressione severa più del solito, i folti sopraccigli increspati e la fronte sensibilmente corrugata del padre non lasciavano presagire nulla di buono e rafforzarono il dubbio che aveva tormentato Adelasia mentre raggiungeva il castello.
«Ecco» soggiunse lui, indicando il documento dello scrittoio «ho firmato il contratto del tuo matrimonio. Benedetto Arcamone, signore dei casali di Loseto, Ceglie e Bitritto, ha accettato tutte le mie richieste. Dovrai sposarlo alla fine di questa estate»
«No, no» gridò per la prima volta davanti al padre Adelasia, chiudendosi poi in uno stato di disperazione indescrivibile.
«Sapevo già della tua reazione. A partire da questo momento e sino al giorno del matrimonio sarai relegata nella torre di isolamento del castello». Poi chiamò due guardie e ordinò di accompagnare la figlia lì sulla torre, di vigilare notte e giorno e di non permettere ad alcuno di avvicinarsi.
Benedetto Arcamone, a dispetto del suo nome, si distingueva per il carattere violento e volgare; vedovo da qualche tempo e già molto avanti negli anni, aveva l’unico pregio, ma solo per Roberto della Marra, di disporre di un grande patrimonio. Di lui si dicevano cose tristi e non mancava chi giurasse che avesse fatto morire la moglie di crepacuore.
Contadini e servi, dopo aver ostentato formale rispetto davanti a lui, si scambiavano subito dopo complici sorrisi alle sue spalle e il loro pensiero puntualmente andava all’impresa che lo aveva reso ridicolo in tutto il Regno: Arcamone, chiassoso millantatore di vittorie in duelli e tornei, posto a capo della difesa di un importante castello della Terra di Bari, non si accorse neppure dell’entrata degli assalitori che lo imprigionarono mentre era ubriaco fradicio. La sua famiglia dovette pagare un consistente riscatto per ottenere la sua liberazione.
Intanto, nei giorni successivi inutilmente Giovanni attese l’arrivo di Adelasia lì in quella radura. Cercò di ottenere qualche notizia, ma nessuno fu in grado di dirgli qualcosa. E così, terminati i lavori della mietitura, partì, raccomandando agli anziani genitori di tenerlo informato su ogni novità che si verificasse a Balsignano.
La madre, che aveva osservato più volte la Madonna dipinta e aveva colto fin dall’inizio l’espressione trasognata del figlio, salutandolo al momento della partenza gli sussurò: «Non ti preoccupare, appena sapremo qualcosa di Adelasia, in qualche modo ti informeremo». La prima domenica di settembre fu assai animata a Balsignano: l’araldo ufficiale di Roberto della Marra, cavalcando un cavallo bardato secondo le grandi occasioni, girava per le viuzze del casale annunziando il matrimonio di Adelasia. Fermandosi ad ogni crocicchio e attendendo che si radunasse la folla, srotolando lentamente una pergamena, con tono solenne annunziava ad alta voce: «Gente di Balsignano, il nobile Roberto della Marra, nostro signore e capitano, vi informa che l’ultima domenica di questo mese verrà celebrato il matrimonio fra sua figlia, madonna Adelasia, e Benedetto Arcamone, signore dei casali di Loseto, Ceglie e Bitritto. Quel giorno saranno sospesi tutti i lavori e le case dovranno essere abbellite da drappi e coperte ricamate».
Quella stessa mattina, il padre di Giovanni si recò al porto di Bari, dal quale al tramonto di ogni domenica partiva una nave per Pisa e pregò il capitano, al quale si era rivolto anche nel passato, di far giungere a suo figlio Giovanni la notizia del matrimonio di madonna Adelasia.
Arrivò così la data fatidica. In ogni angolo della corte interna di Balsignano v’erano damigelle, nobildonne, giovani cavalieri, conti e baroni; fuori, ai due lati del viale che congiungeva il castello alla chiesa di San Felice, dove si sarebbe dovuto celebrare il matrimonio, i Balsignanesi si accalcavano, cercando di guadagnare la prima posizione per guardare da vicino la sposa.
Fra squilli di trombe e rulli di tamburi fu aperta la porta della corte interna del castello di Balsignano e il corteo nuziale cominciò a muoversi.
Alle vistose espressioni di soddisfazione del Della Marra e di Arcamone si opponeva la profonda mestizia di Adelasia che procedeva con gli occhi bassi, quasi stesse dirigendosi verso il patibolo. La folla, anch’essa triste e silenziosa, era tutta con lei e partecipava visibilmente alla sua tragedia. Nel punto in cui il viale era ricoperto da un noce secolare, Adelasia, rispondendo ad uno di quegli impulsi inspiegabili, sollevò lo sguardo e i suoi occhi si incrociarono con quelli di Giovanni, presente anche lui fra la folla ammutolita.
Fu un attimo: liberandosi del braccio del padre, Adelasia cominciò a correre con tutta la sua disperazione, gettando via il copricapo bianco, i monili e pezzi del vestito nuziale. Tutti restarono lì come paralizzati e quasi incapaci di fare qualcosa.
Solo Giovanni capì e cercò di raggiungerla, facendosi strada disperatamente fra la folla. Purtroppo, non gli riuscì di fermarla: Adelasia, giunta con una velocità sorprendente sul ciglio della lama, si gettò giù nel fiume. Giovanni, che pensava quasi di poterla afferrare, la seguì e i due corpi scomparvero nelle acque che proprio in quel punto erano più profonde, violente e particolarmente limacciose.
Tutti si portarono lì sulla lama e si sporgevano pericolosamente nella speranza di poter vedere affiorare i due giovani. Solo Roberto della Marra e Benedetto Arcamone restarono lì fermi sul viale a discutere animatamente.
Nessuno può dire con certezza se i due giovani siano morti o se si siano salvati, poiché i loro corpi non furono mai trovati, nonostante nei giorni seguenti tutto il fiume fosse stato scandagliato minuziosamente sino alla foce. Quel che è certo, invece, è che una sorta di maledizione cadde sull’antico casale: le vessazioni di Roberto della Marra si moltiplicarono, pessimi raccolti si susseguirono per diverse annate, un velo di tristezza si impadronì dei Balsignanesi, che così sempre più numerosi abbandonarono l’antico casale. Quasi a custodia del castello, delle chiese e delle case restò solo un vecchio saggio, che narrava ai passanti la tragedia di Adelasia e di Giovanni. Alla fine del racconto egli profettizzava immancabilmente: «Giorno verrà in cui l’interesse per le opere d’arte del casale e la commozione per la tragedia dei due giovani sveglieranno i cuori degli abitanti di Modugno: solo allora si dileguerà quel sortilegio malefico che avvolge Balsignano». Verso la fine dei suoi giorni quel saggio ebbe quasi una conferma della sua profezia: alcuni bambini, giocando fra le rovine del villaggio, entrarono nella casa che fu dei genitori di Giovanni, trovarono una grande tela raffigurante la Madonna e, mirandola con religioso silenzio, la portarono nella chiesa di Santa Maria di Costantinopoli, depositandola sull’altare principale.
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