E a Balsignano ritornano i cavalieri normanni e la solenne cerimonia di investitura
Anno XXVIII N. 125,126 Dicembre 2006
Maria Franceschini
Un importante convegno internazionale, quello delle “giornate normanno-sveve”, si è svolto tra Bari e Modugno dal 10 al 13 ottobre, con il patrocinio della Presidenza e dell’Assessorato al Mediterraneo della Regione Puglia, del Comune di Bari e del Comune di Barletta, e con la partecipazione del Comune di Modugno che, nell’ambito del programma di valorizzazione di Balsignano, si è fatto carico della organizzazione della giornata del 12 ottobre. Si è trattato della diciassettesima edizione di un appuntamento che si rinnova a cadenza biennale dal lontano 1973, organizzato dal Centro di Studi Normanno-Svevi dell’Università di Bari, ente morale fondato nel 1963 con l’intento di promuovere e favorire gli studi sulla storia dell’Italia meridionale nei periodi normanno e svevo sotto tutti gli aspetti, letterario, storico, giuridico, economico, politico, artistico.
I convegni, sempre accompagnati dalla pubblicazione degli Atti delle precedenti “giornate”, hanno, nelle prime sei edizioni, analizzato il periodo normanno-svevo per segmenti cronologici, per poi adottare, negli incontri successivi, un approccio per nuclei tematici.
Le diciassettesime “giornate” hanno messo a fuoco il periodo caratterizzato dalla istituzione del regno normanno, fondato da Ruggero II (1130-1154), che si fece incoronare dall’antipapa Anacleto, cui succedettero Guglielmo I (1154-1166), detto poi “il Malo” anche per aver quasi raso al suolo Bari, Guglielmo II (1166-1189), detto “il Buono”, ed infine, dopo una crisi dinastica, Tancredi di Lecce. Con la morte di quest’ultimo nel 1194, il regno passò all’imperatore Enrico VI di Svevia, figlio di Federico Barbarossa e futuro padre di Federico II, in virtù del suo matrimonio con la normanna Costanza d’Altavilla, figlia di Ruggero II.
II regno normanno, che ha segnato profondamente la storia del Mezzogiorno italiano, è stato indagato nei suoi caratteri distintivi e di identità, con riferimento ai poteri signorili, alle istituzioni feudali ed alle strutture sociali. In particolare, le relazioni presentate da studiosi italiani e stranieri nelle quattro giornate di incontri hanno sviluppato i seguenti argomenti: i modelli anglo-normanni; i modelli meridionali pre-normanni; le prime codificazioni; il lessico feudale; i poteri signorili di vertice; chiesa e feudalesimo; signorie monastiche; signorie locali e mondo rurale; centri demici e dinamiche economico-sociali; città e corona; la cultura di corte; le liturgie del potere nelle testimonianze letterarie e nei segni visivo- oggettuali; il regno ed i mussulmani.
Per favorire la partecipazione al convegno sono state assegnate ben 51 borse di studio, di cui 15 offerte a giovani studiosi europei dallo sponsor ufficiale della manifestazione, il Gruppo Italgest, azienda del Mezzogiorno che si occupa di produzione di energia da fonti rinnovabili.
Altre 10 borse sono state offerte dal Comune di Barletta, 15 dalla facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Bari, 9 dal Centro di Studi Normanno-Svevi, 2 dal Rotary di Fasano.
Durante il convegno sono state presentate, oltre agli Atti delle sedicesime “giornate”, altre due pubblicazioni: la prima raccoglie gli Atti di un convegno di studio promosso dall’Abbazia barese di Santa Scolastica (Bari, 3-6 dicembre 2005), a cura di Cosimo Damiano Fonseca, dal titolo II monachesimo femminile tra Puglia e Basilicata; la seconda pubblicazione inaugura una nuova collana, i “Quaderni” del Centro di Studi Normanno- Svevi, in cui troveranno spazio monografie e saggi di singoli autori.
Il primo quaderno onora, ad un anno dalla scomparsa, la memoria di Giosuè Musca, insigne medievista, docente nell’Università di Bari e direttore del Centro di Studi Normanno-Svevi dal 1982 al 2002, con la riproposizione di un fortunato saggio già pubblicato nel 1981 e nel 2002, dal titolo Castel del Monte, il reale e l’immaginario.
Nella nota introduttiva Raffaele Licinio, curatore della collana, spiega con parole illuminanti la chiave di lettura di questo saggio: «Musca aveva studiato Castel del Monte negli anni in cui le interpretazioni simboliche e la “teoria dello gnomone” di Aldo Tavolare, che voleva quel castello “un tempio costruito dal sole”, non avevano ancora esaurito la loro utile, se non indispensabile, “spinta propulsiva”, non avevano ancora prodotto le mostruose deformazioni esoterico-neo templari dei nostri giorni». Un pericolo, quello del dilettantismo dilagante nella “lettura” del Medioevo, su cui lo stesso Musca sentì il bisogno di esprimersi in uno dei suoi ultimi scritti: «Accade di posare lo sguardo su scritti (libri o saggi o articoli giornalistici) i cui autori, vantando competenze che non hanno e utilizzando nozioni malamente orecchiate, si avventurano in interpretazioni fantasiose che fanno riferimento a conoscenze dubbie o spericolate o addirittura ermetiche o cabalistiche, senza una adeguata conoscenza delle fonti o avvalendosi di fonti che tali non sono, ma esperimenti letterari o peggio».
La “giornata” modugnese del 12 ottobre
Il 12 ottobre il convegno si è spostato a Modugno con un ricco calendario di eventi che hanno avuto luogo in mattinata nel Palazzo della Cultura, il pomeriggio nel casale di Balsignano. Le relazioni degli studiosi sono state precedute dal saluto delle autorità. Dopo l’introduzione di Cosimo Damiano Fonseca, accademico dei Lincei, ordinario di Storia medievale nell’Università di Bari e vicepresidente del Centro di Studi Normanno-Svevi, sono intervenuti il Sindaco di Modugno Pino Rana e l’assessore alla Cultura Michele Trentadue, che, dopo aver richiamato alcune vicende storiche del casale di Balsignano, hanno sottolineato l’importanza del sito ed hanno espresso il proposito di impegnarsi nel reperimento di fondi per il restauro e la valorizzazione dello stesso. Ha poi preso la parola Silvio Panaro, presidente della Camera di Commercio Italo-Orientale, per esporre il suo progetto, approvato anche dall’Università di Bari e finalmente prossimo alla realizzazione, di una fiera internazionale mediterraneo-federiciana che dovrebbe coinvolgere circa 200 comuni e varie province. La parola è dunque passata a due storici italiani che hanno affrontato temi specifici riguardanti il genere della letteratura di corte nel regno normanno, di cui si parla qui di seguito.
Dopo le due relazioni, Raffaele Macina, direttore della nostra rivista, ha fatto una comunicazione, con la quale egli ha ricostruito i momenti e le tappe più importanti dell’impegno, ormai quasi trentennale, di Nuovi Orientamenti, prima per imporre all’attenzione il Casale di Balsignano e poi perché fossero avviati i primi interventi di salvaguardia e di recupero. In particolare, egli si è soffermato sull’avvio dei primi interventi curati dalla Soprintendenza per i Beni Architettonici e per il Paesaggio degli anni Ottanta; sulle diverse e fortunate campagne di scavo; sull’acquisizione di Balsignano nell’anno 2000 al patrimonio comunale.
Infine, Macina ha sottolineato l’importanza regionale e nazionale di Balsignano, affermando che, nell’ambito della valorizzazione di questo importante bene culturale, bisogna richiamare su di esso l’attenzione di un pubblico sempre più vasto; in questo senso – egli ha concluso – la celebrazione a Modugno di una delle “diciassettesime giornate normanno-sveve” costituisce un momento fondamentale, anche per l’apporto di studio e di nuove ricerche che potrà venire dagli autorevoli storici protagonisti del convegno. Subito dopo c’è stato un intervento di Maurizio Triggiani, storico dell’arte medievale, che ha inquadrato Balsignano nella rete dei percorsi viari e del sistema degli insediamenti rurali e, dopo aver presentato le emergenze architettoniche del casale, ha illustrato alcuni dei risultati della più recente campagna di scavo eseguita nel- l’area della Chiesa di S. Maria.
La manifestazione pomeridiana a Balsignano ha riscosso un inaspettato successo di pubblico, costituito, oltre che dagli studiosi e dai congressisti, da un folto gruppo di ragazzi delle scuole elementari e medie di Modugno, accompagnati da genitori ed insegnanti.
Purtroppo non è stato possibile accedere all’area della corte del castello, dove è ancora attivo il cantiere di restauro, ma l’attenzione è stata completamente assorbita dalla “presenza” sul posto di un accampamento con guerrieri normanni.
Infatti per l’occasione l’Associazione culturale “Historia” di Bari ha allestito un accampamento militare normanno e messo in scena la cerimonia di investitura di un cavaliere ed un combattimento tra soldati appiedati. L’Associazione “Historia” si occupa di rievocazioni storiche dal 1998 operando su tutto il territorio nazionale e da qualche anno collabora anche con il Centro di Studi Normanno-Svevi. «Quello che facciamo – ci spiega il presidente dell’associazione Stefano Latorre – è ricostruire il passato e portarlo tra la gente. Svolgiamo un ruolo didattico e contestualmente riusciamo ad attrarre l’attenzione sui siti dove operiamo, con il risultato di farli conoscere e di contribuire alla loro valorizzazione. La ricostruzione del passato che noi operiamo si basa sempre su fonti iconografiche, archeologiche e storiche, anche se con tutti i limiti del caso. A questo punto è necessario aprire una parentesi sulla archeologia sperimentale, che in Inghilterra si è sviluppata già dagli anni Ottanta. Gli Inglesi si sono accorti prima degli altri che la teoria è utile per analizzare le fonti, ma non è sufficiente, nel senso che poi è necessario “provare” le teorie sul campo. Ad esempio, si sono occupati dei trabucchi, hanno ricostruito fedelmente questa macchina da guerra, che ha la caratteristica di non poter essere spostata, ne hanno studiato la gittata, hanno costruito un muro con tecniche medievali per capire quale fosse l’efficacia in base al peso dei proiettili. Ne hanno ricavato una serie di dati che era possibile ottenere solo attraverso la pratica. Lo stesso discorso si può fare per altri oggetti della vita materiale e della tecnologia militare, ad esempio i trattamenti della ceramica, l’utilizzo delle scarpe, il peso della spada, l’uso della lancia, le varie forme degli elmi, e così via. Il nostro contributo vuole essere da un lato di collaborazione con gli studiosi per quanto riguarda la sperimentazione pratica dei risultati delle ricerche, dall’altro di divulgazione immediata degli stessi contenuti ad un pubblico più vasto». Molto interessante è anche il progetto di valorizzazione di Balsignano che Stefano Latorre ha in mente: «Il sito di Balsignano non ha ampie strutture edilizie, ma presenta ugualmente buone potenzialità dovute alla disponibilità di una vasta area all’aperto di proprietà comunale. Coinvolgendo le altre associazioni presenti su Modugno che abbiano interesse a far rivivere il castello, si potrebbe senza grosse difficoltà creare un circuito di turismo didattico e turismo storico-culturale. D’inverno si potrebbero utilizzare gli spazi come sede per laboratori o corsi. La cosa importante in un contenitore culturale di questo tipo, fuori dal centro abitato, è infatti garantire una continuità d’uso, altrimenti non c’è speranza di salvarlo dal degrado. In occasioni particolari potrebbero essere anche organizzati eventi per un pubblico più “casereccio”, per esempio per la festa del santo, per la Pasquetta, e così via». Che Latorre abbia buoni motivi di essere ottimista per il suo progetto lo dimostra il fatto che a Balsignano l’accampamento normanno con i suoi guerrieri sia stato letteralmente “preso d’assalto” dal pubblico incuriosito ed interessato. In particolare, la riproposizione della cerimonia di investitura di un cavaliere normanno è stata seguita dal numeroso pubblico presente in religioso silenzio, così come grande è stato l’interesse per il duello fra due cavalieri che ha concluso la manifestazione.
Le due relazioni della giornata modugnese
Glauco Cantarella, dell’Università di Bologna, ha esposto nella sua relazione (“La cultura di corte”) la tesi che il regno di Sicilia non conosca una cultura curiale articolata e complessa come quella espressa in Inghilterra durante il regno di Enrico II Plantageneto. Fa eccezione il grande Ugo Falcando, in cui si ritrova la summa di ciò che si potrebbe desiderare da un’opera di corte: narrazione politica, pluralità di protagonisti, analisi dei costumi, informazioni sui retroscena, eleganza stilistica, consapevolezza di costruzione, in una parola, coscienza piena di sé. Ma egli costituisce appunto una eccezione. La norma è rappresentata da scrittori quali Malaterra, Alessandro di Telese, Maione. Bisogna prendere atto che la cultura di corte nell’Italia normanna è cultura eminentemente politica. La cultura non ha apparentemente una valenza di carriera, non è cioè intesa come utile a scalare un cursus honorum, sia pure un cursus honorum molto particolare e fondamentalmente secondario come quello dei letterati, quindi non viene praticata: del resto, perché scrivere se quanto viene scritto senza una committenza preventiva non viene preso in considerazione da nessun protettore?
Invece in Inghilterra nel regno del Plantageneto sono molto ampie le possibilità per un letterato che ha seguito gli studi universitari a Parigi, ma anche a Bologna, di trovare il giusto impiego in considerazione delle proprie competenze, anche perché può contare sulla compresenza e concorrenzialità di più gruppi di potere. Questo consente di avvicinare la cultura di corte inglese più a quella comunale italiana che a quella del regno normanno di Sicilia. Quest’ultima è anche dissimile da quella francese e da quella dell’impero del Barbarossa. Insomma, ognuna di esse presenta specificità al di là del fatto che si possa constatare la compresenza di opere che aderiscono allo stesso genere, il genere curiale appunto. La cultura di corte è scrittura di corte e insieme scrittura per la corte, è un universo di autorappresentazione che codifica delle regole nelle quali si autoriconoscono il destinatario, il committente e lo scrittore, vale a dire che costituiscono la trama sulla quale si intesse l’ambiente dorato ed esclusivo (nel senso che esclude coloro che non vi sono stati ammessi) della corte.
Ora, in Sicilia il solo fatto di scrivere manifesta già l’avvenuta cooptazione. Goffredo Malaterra è lo scrittore di corte dell’età di Ruggero I, la sua condizione è frutto della selezione operata preventivamente dal patrono.
La scrittura promuove perché rende compartecipi dell’aura di privilegio dei circoli esclusivi in cui ci si è trovati proiettati con fatica e fortuna, operando una vertiginosa scalata sociale. La scrittura è quindi segno di promozione, ma segnala anche la “naturale”, per così dire, appartenenza al sistema di corte.
E questo anche il caso di Romualdo Salernitano. Egli è un uomo di corte fino alle unghie, un politico consumato capace di passare indenne diverse stagioni. Egli appartiene al sistema della corte siciliana non per le sue competenze retoriche o dialettiche, ma per le sue capacità politiche, egli è esperto conoscitore delle regole superiori della corte.
Per questo il suo lungo racconto delle trattative di Venezia fra papa, imperatore, Regno di Sicilia e Comuni deve essere considerato un documento fortemente rappresentativo della cultura di corte di Guglielmo II. A Romualdo è stato assegnato il ruolo di plenipotenziario del re nella maggiore vicenda politica della sua epoca, lo scisma e le guerre tra papato ed impero. Egli quindi appartiene già alla corte ed è ai suoi pari, i diplomatici della corte, che si rivolge, per avere la loro approvazione e di conseguenza quella del re. Non attraverso l’uso di un procedimento adulatorio, ma attraverso l’impiego del linguaggio politico nel quale il Regno di Sicilia vuole rappresentarsi, all’esterno ed a sé stesso.
Ad esempio, Guglielmo II viene descritto con la qualifica di aiuto e difensore della chiesa, titolo già appartenente alla tradizione imperiale d’occidente, il che significa porlo sullo stesso piano dell’imperatore. Questo e molti altri particolari del racconto riflettono l’intenzione del re di essere riconosciuto come importante interlocutore della chiesa nello scacchiere italiano, al pari dell’imperatore.
Il consenso di Venezia rende ufficiale il nuovo rango a cui assurge il regno. Il Regno di Sicilia, insomma, è entrato a pieno titolo nell’empireo politico, non è più quella entità pericolosa ed illegittima che tutti cercavano di demolire e che combatteva contro tutti. Di più. Il regno viene rappresentato come garante della pace, e può occuparsene perché non è impegnato a combattere i propri sudditi. Insomma, è già formata l’immagine che si avrà del regno di Guglielmo dopo la sua morte, di cui si trova espressione nello stesso Falcando. Romualdo ne è il primo testimone, o forse il primo costruttore? Romualdo prepara preziosi strumenti politici, che non riflettono necessariamente gli accenti reali delle giornate veneziane, ma sono verosimili, e offrono materiale alla discussione ed alla condivisione di corte.
Ovviamente in Romualdo c’è molto altro. La sua scrittura si rivela complessa, sottile e non priva di sorprese. In particolare si vuole accennare al livello dell’intrattenimento, della facetia. La facetia, la regola principe dell’attitudine curiale, componente essenziale della elegantia dell’uomo di corte, non può mancare in un’opera curiale, e difatti qua e là si manifesta, ed in maniera esemplare nella pagina sullo scontro tra i plenipotenziari di Guglielmo II e il doge. Siamo ai livelli del miglior Walter Map e avremmo già dovuto accorgercene da un pezzo se soltanto Romualdo non fosse stato escluso dal novero degli scrittori di corte. Non siamo neppure troppo lontani da Falcando e da Malaterra. C’è tuttavia una differenza importante, quella della contemporaneità agli eventi: queste pagine sono scrittura di corte viva, cultura politica in atto, un’esperienza dopotutto abbastanza rara.
Fulvio Delle Donne, dall’Università di Napoli, ha tenuto la seconda relazione (“Liturgie del potere: le testimonianze letterarie”), puntando l’attenzione sulle descrizioni letterarie delle incoronazioni di Ruggero II, Guglielmo I e Guglielmo II, per cercare di capire da quali particolari della loro liturgia siano stati maggiormente colpiti gli autori. Egli inizia con un testo molto eccentrico del 1230 circa, di Bernardo Tesoriere, che ci racconta come il re di Francia Luigi, spinto dal vento, approdi sulle coste della Sicilia e venga accolto in maniera molto onorevole da Ruggero, ma, prima di ripartire, venga indotto con l’astuzia a porre una corona sul capo di Ruggero, che fino a quel momento è stato signore di Puglia e di Calabria, e che così diviene re.
La descrizione dell’incoronazione di Ruggero II in Bernardo Tesoriere, come nella versione latina del secolo successivo di Francesco Pipino, è condotta in maniera senz’altro fantastica, sconfinando quasi nella novellistica. La narrazione si colloca a distanze geografiche e cronologiche molto ampie e di quell’evento restituisce un’eco lontana, tanto lontana da perdere ogni connessione con la realtà storica. Al narratore non interessa del resto fornire informazioni precise, ma creare immagini suggestive, riproducendo probabilmente l’impressione che doveva aver generato, riverberandosi nel tempo, l’evento dell’incoronazione del re normanno.
Come si sia sviluppata la leggenda (presente anche in altre fonti di ambito franco-inglese) che ad incoronare Ruggero II fosse stato il re di Francia è difficile dirlo, può darsi in connessione con gli accordi che ci furono tra i due a proposito della crociata. Comunque, si può ipotizzare che abbia sortito un proprio effetto anche la notizia che a porre la corona sul capo di Ruggero II non fosse stato un rappresentante della chiesa. Su questo punto bisogna volgere lo sguardo ad altre fonti. Falcone Beneventano, assai critico nei confronti del potere normanno, scrive che chi pose la corona sul capo di Ruggero II fu il principe Roberto di Capua, verso cui però il re si dimostrò ingrato.
L’aneddoto riportato da Bernardo Tesoriere e da Francesco Pipino fornisce una ulteriore caratterizzazione della problematica legittimità dell’incoronazione, raccontando dell’astuzia usata dal normanno. Anche Falcone parla di astuzia a proposito di un sotterfugio escogitato dal sovrano di passaggio per Napoli nel 1140 per fare colpo sulla cittadinanza e dimostrare, quasi con un gioco di prestigio, la propria grandezza. Solo che nel primo caso l’astuzia è rivolta non a stupire, ma ad aggirare l’ostacolo istituzionale che si frappone all’incoronazione, quello della sua legittimità.
Del resto, Ruggero II studiò attentamente la maniera per risolvere il problema della legittimazione del regno anche da un punto di vista teorico, come dimostra un passo di Alessandro di Telese, sostenitore e celebratore del potere normanno, in cui egli spiega come la monarchia si basasse su una antica tradizione regia già praticata in Sicilia. Essa dunque non veniva improvvisamente inventata, ma semplicemente restaurata; non si trattava di sovvertire le istituzioni, ma di riportarsi ad un antico ordine.
Dunque, i racconti del Tesoriere e di Pipino costituiscono senz’altro una spia di come l’incoronazione di Ruggero II potesse essere recepita negli ambienti lontani dalla corte normanna e, per converso, in quelli dei suoi maggiori sostenitori come Alessandro di Telese.
I racconti del Tesoriere e di Pipino si soffermano anche su un altro particolare, che pure costituì il riverbero leggendario di un aspetto che dovette colpire l’immaginario collettivo, ovvero quello della ricchezza di Ruggero IL La liturgia dell’ostentazione della ricchezza e dello sfarzo viene confermata esplicitamente dal racconto della cerimonia di incoronazione fatto da Alessandro di Telese.
Evidentemente l’ostentazione della ricchezza costituiva la principale “insegna di potere” che Ruggero II intendeva mostrare, o almeno quello che dovette essere maggiormente recepito dagli spettatori e che poi si riverberò nel tempo fino a Bernardo Tesoriere ed a Francesco Pipino. Come sembra probabile, il nuovo sovrano intendeva effettuare una dimostrazione di potenza tale da rendere palese che il titolo di re gli spettasse senz’altro. Insomma, ammirazione, stupore e timore, queste furono le impressioni suscitate con lo scopo di sortire la sensazione di eccezionalità connessa con l’idea di un potere destinato a diventare sacro e carismatico. Così come in altre occasioni, per ottenere lo stesso effetto, aveva puntato sulla visibilità esemplare delle punizioni e dei supplizi.
Secondo quanto evinciamo soprattutto dalla descrizione di Alessandro di Telese, Ruggero II ricercò la spettacolarizzazione dell’incoronazione. Prassi diversa sembra che abbiano seguito i suoi successori, o almeno la ricezione dell’evento non fu la stessa.
Romualdo Salernitano, a proposito della incoronazione di Guglielmo I, avvenuta nel 1154, fa una descrizione asciutta e semplice. Non possiamo dire con certezza quali motivi abbiano spinto Romualdo a questa linea narrativa, ma va detto che Guglielmo I tendeva a sottrarsi alla vista dei propri sudditi, mirando ad ammantare di carisma e mistero il suo ruolo, secondo una prassi forse di derivazione bizantina. Ugo Falcando conferma questo tratto dell’inaccessibilità del sovrano. Anche le ricchezze che Ruggero II tendeva ad ostentare divennero qualcosa di privato. Insomma tutto doveva rimanere all’interno della reggia, rinunciando non solo agli aspetti visibili della liturgia del potere, ma anche alla stessa gestione pubblica del potere.
Tuttavia, nel momento della congiura del marzo 1161, anche Guglielmo I fu costretto a modificare la prassi del suo comportamento: la regalità che egli aveva trasformato in invisibile ed inattingibile venne in quell’occasione resa pubblica ed offerta al popolo, come raccontano Romualdo e Ugo Falcando.
La ricerca dell’amore dei sudditi diviene invece la strategia del potere adottata da Guglielmo II. Lo stesso Falcando non tarda a segnalarlo già a partire nel racconto della sua incoronazione nel 1166, in cui descrive la gioia del popolo e la cavalcata del sovrano per le strade della città.
Se Ruggero II ed il suo celebratore Alessandro di Telese, per dare espressione alla carismaticità del potere regio, si erano serviti dell’oro e dell’argento, Guglielmo II e Falcando si servono soltanto della presenza e del- l’aspetto corporeo della sovranità. Simile da questo punto di vista è pure la descrizione fatta da Romualdo Salernitano, che si sofferma soprattutto sulla pubblica compartecipazione della gente alla liturgia del potere, dall’acclamazione dell’assemblea alla letizia festante dei sudditi. La liturgia seguita per l’incoronazione di Guglielmo II dovette essere simile a quella celebrata in occasione dell’incoronazione di Tancredi di Lecce, avvenuta a Palermo nel 1190. Tuttavia essa viene rappresentata con ricchezza di particolari, ma in maniera totalmente capovolta nella descrizione data da Pietro da Eboli. La sacralità della liturgia viene ribaltata come in una rappresentazione carnevalesca, il re viene additato nella sua deformità che lo pone al di sotto degli uomini, proprio nel momento in cui dovrebbe stare al di sopra.
Pietro da Eboli è naturalmente autore raffinato e scaltro e sa usare altri toni per descrivere l’incoronazione di Enrico VI, nel 1191. Enrico VI è pero il signore al quale Pietro da Eboli dedica la sua opera, facendosi interprete di un nuovo modo di rappresentare il potere. Nella caratterizzazione dei sovrani normanni gli autori esaminati si rifacevano ancora a criteri valutativi incentrati soprattutto sugli aspetti visibili e tangibili della fisicità e della corporeità, ma con l’avvento della dinastia sveva i moduli rappresentativi della liturgia del potere tendono a connotare sempre più la regalità con i tratti arcani della ieraticità mistica, secondo gli schemi di una nuova propaganda.