Month: Settembre 1988

Giuseppe Ceci: “Cireneo” anche su Balsignano

In questo numero pubblichiamo il saggio più completo che sia stato scritto sino ad ora sul Casale Medievale di Balsignano, di cui fu autore Giuseppe Ceci. Il saggio, fin da quando apparve sul n. 1 dei 1932 della rivista «JAPIGIA», si impose subito all’attenzione degli studiosi per la ricchezza della documentazione e per la sua sistematicità, tanto che ancora oggi esso costituisce una fonte primaria e privilegiata dalla quale i ricercatori attingono notizie e valutazioni su Balsignano. La riproposizione dello studio del Ceci, del quale viene presentato un breve profilo biografico in questa pagina, non vuole avere soltanto un intento storiografico, ma mira soprattutto a sollecitare concrete iniziative per il recupero di Balsignano. Chissà, leggendo questo studio, qualche responsabile delle istituzioni politiche e culturali potrebbe accendersi di «eroico furore» per la storia, ricca e affascinante, sedimentata nelle pietre di Balsignano e armarsi di buona volontà! Sarebbe un miracolo, e la ragione è sempre li pronta a ripeterci che il miracolo non attiene alla dimensione della storia e delle umane vicende. Ma in una situazione come questa, quando la colpevole incuria delle autorità preposte alla salvaguardia è lì sul punto di fagocitare e cancellare per sempre Balsignano, che altro si può fare se non invocare l’impossibile miracolo?

Raffaele Macina

 

Link saggio di Giuseppe Ceci: “Balsignano”

Anno X N. 5,6 Settembre,Dicembre 1988
Piero Bianchi, Costanza Novielli

«All’apparire di Giuseppe Ceci i nove musi diventaron dieci». Così si verseggiò scherzosamente, quando il nome di Giuseppe Ceci si venne ad aggiungere a quello dei nove studiosi più eminenti della Napoli di fine ottocento.

Giuseppe Ceci nacque ad Andria il 25 dicembre del 1863; fu legato a Benedetto Croce da un forte sentimento di amicizia sin da quando furono entrambi allievi nel collegio napoletano della «Carità». Laureatosi in Giurisprudenza, intorno ai vent’anni si consacrò alla storia delle arti figurative e alla topografia di Napoli, divenutagli seconda patria. Nel 1892, insieme con Riccardo Carafa di Andria, Luigi Conforti, Benedetto Croce, Salvatore Di Giacomo, Michelangelo Schipa e Vittorio Spinazzola, fondò «Napoli Nobilissima», la bella rivista mensile d ’arte e topografia napoletane. Il Ceci ne curò la redazione, incarico certamente oneroso, poiché attendere alla redazione non significava soltanto forni re un certo numero annuale di articoli, occuparsi delle rubriche «Notizie e osservazioni» e «Da libri e periodici» firmandole con gli pseudonimi di don Ferrante e don Fastidio, correggere le bozze e curare rimpaginazione, ma implicava anche il dover combattere con la prosa artefatta di alcuni collaboratori, di cui era solito riscrivere da cima a fondo gli articoli. Il Ceci fu inoltre animatore e collaboratore della rivista «Japigia» dal 1930 al 1935.

Fausto Nicolini nella commemorazione di Giuseppe Ceci, spentosi il 25 febbraio del 1938, afferma di non aver conosciuto uno studioso più disinteressato. Il Ceci nella sua vita non fu mai bramoso di gloria, ne è testimonianza il fatto che pur possedendo notevoli qualità di scrittore, alla piacevole fatica dell’esporre e del raccontare preferì quella, più arida, del ricercare, raccogliere e catalogare a beneficio degli studiosi; egli invece che lavorare per sé lavorava per gli altri assumendosi, con umile pazienza da certosino, la parte più uggiosa e ingrata dei lavori altrui. Sempre il Nicolini definisce le opere di Ceci lavori perfetti sia dal punto di vista dell’informazione erudita sia da quello della sobrietà, scioltezza e semplice eleganza della forma. Di notevole importanza sono i due volumi di «Bibliografia per la storia delle arti figurative nell’Italia meridionale», strumenti che consentono agli studiosi di orientarsi con rapidità ed esattezza, in questo vastissimo campo di lavoro.

Animato da un grande interesse per la storia locale, il Ceci portò notevoli contributi alla cultura pugliese. Un tale impegno di ricerca sulla storia locale spinse il Ceci a stabilire un fraterno rapporto di amicizia e di collaborazione con Vito Faenza (1845-1923), instancabile ricercatore e storico modugnese, del quale egli pronunziò un’accorata commemorazione funebre. Non è da escludere che a spingere Ceci ad occuparsi sistematicamente del Casale di Balsignano abbia contribuito lo stesso Faenza che su di esso aveva già pubblicato numerosi interventi. In questo senso, si potrebbe parlare di una ideale continuità di impegno su Balsignano fra questi due appassionati storici; continuità testimoniata, per altri versi, dal fatto che il Ceci successe nel 1923 al Faenza nella presidenza della Commissione Provinciale di Bari della «Società di Storia Patria».

All’età di settantaquattro anni, il Ceci si dedicò a un lavoro molto impegnativo: proseguire, cioè, gli spogli iniziati dal D’Addosio nelle polizze di pagamento degli antichi banchi napoletani — conservate tutte nel l’Archivio generale del Banco di Napoli — per trarne le notizie relative ai cultori delle arti figurative. Solo la morte potè troncare il suo ardore giovanile di ricerca e la fatica ultima che aveva intrapreso con tanta gioia e tanto entusiasmo.

Per un parco archeologico su Balsignano

Anno X n. 5-6 Settembre-Dicembre 1988
Nino Lavermicocca

 

Ma su Balsignano è proprio vero che il Comune di Modugno non possa far nulla? Il dott. Nino Lavermicocca, ispettore della Soprintendenza Archeologica di Bari, in questo articolo avanza due proposte: far ricorso alla legge regionale n. 37 del 1979; destinare subito il territorio di Balsignano a «Parco Archeologico», perché possano essere avviati saggi di scavo. Il consiglio comunale, sempre impegnato indiscussioni «trimalchionesche», riuscirà a dedicare un’ora del suo infinito quanto improduttivo tempo per assumere una deliberazione su Balsignano?

«Cronaca di un delitto annunciato» è ormai il titolo del «giallo» di Balsignano trasmesso in mille puntate e del quale, comunque, non si indovina ancora l’assassino (o sì?). Il tempo, indifferente alle volontà e ai capricci degli uomini, intanto trascorre e la caparbia resistenza di Balsignano dà i primi segni di cedimento ai colpi dell’ignavia e dell’assedio dei nuovi «Ungari», a caccia di qualche concio di pietra lavorata, una testa affrescata di Madonna, uno stemma, un capitello.

La difesa contro l’attacco è assai debole e disordinata. Coloro ai quali è devoluto il compito della difesa nicchiano, lasciando l’impegno di esporsi ai vicini e questi agli altri nel gioco meridionale dello scaricabarile. Occorre invece che non ci si nasconda dietro il dito; che ciascuno verifichi le effettive capacità d’intervento; rinunci ad impossibili progetti di restauro che non vedranno mai il sole, almeno in questo paese; faccia crudamente i conti in tasca e permetta almeno che alla mancanza di idee, fondi ed interesse supplisca chi può. Si misura così la volontà effettiva di intervenire sul complesso storico-archeologico e monumentale da troppo tempo in abbandono. Se lo Stato non può, per mille e una ragione, accollarsi l’onere dell’intervento riparatore, Io dica apertamente, rinunci e sarà il Comune, la Regione, la Comunità locale a farsi carico di reperire i finanziamenti necessari. Qualche opportunità, strumento c mezzo per raggiungere un risultato parziale è possibile. La Legge Regionale n. 37/1979, in materia di restauro e valorizzazione dei Beni archeologici e monumentali, ha dimostrato di essere, nonostante i suoi limiti e le sue insufficienze, a volte l’unica ancora di salvezza per i monumenti periclitanti, anche se strettamente connessa al naviglio da cui viene calata. Il Comune di Modugno, che vede insieme nel governo della città, come si diceva una volta, il «diavolo» e «l’acqua santa», cerchi nei due «regni» i suoi protettori, siano essi Lucifero o Sant’Arcangelo. L’importante è che il complesso monumentale di Balsignano sia recuperato e rapidamente, tenuto conto che altre salvezze non sono possibili e che le Istituzioni preposte, gravate da enormi compiti e impegni largamente onerosi, interverranno (se mai lo faranno) a disastro avvenuto. Balsignano, una delle rarissime testimonianze superstiti dell’assetto prediale «ager varinus», non merita di essere cancellato dal territorio. Già è andato perduto il patrimonio documentario che concerneva la sua storia, durante l’ultimo conflitto mondiale; non si permetta che vengano distrutte anche le sue vestigia materiali: il castello, le due chiese, la cinta di mura c le altre fabbriche che, tenute appena insieme dai melograni, gli olivi e i mandorli, possono ridursi improvvisamente ad un cumulo di macerie. L’esplorazione archeologica di questo villaggio medievale, fra i meglio conservati della provincia di Bari, a due passi dal capoluogo e da Modugno, città cresciuta tanto in fretta da dimenticare il suo passato non certo ignobile, attestato da simili sopravvivenze, consentirebbe certamente di trarre dall’archivio della terra quelle informazioni (forse più numerose) negate dalle fonti scritte. Per la definizione di un progetto di «Parco archeologico» a Balsignano, proprio l’esplorazione del sottosuolo potrebbe costituire il primo passo concreto, tendente a rimettere in luce l’organizzazione ed il sistema urbano di quell’abitato, che certamente dovette vivere intorno alle «emergenze» tuttora visibili (chiese e castello) con le sue case, botteghe, depositi.

Balsignano inoltre conserva intatto il suo contesto ambientale, degna cornice per una sistemazione a parco, che può anch’esso considerarsi «storico», fra le continue trasformazioni agricole subite invece dalle aree viciniori. Anzi l’equilibrio esistente fra contesto rurale e quello monumentale deve essere rigorosamente tutelato, senza «diradamenti» o mutamenti di colture.

A chi visita per la prima volta Balsignano le chiese appaiono come un frutto della stessa terra, con i blocchetti di pietra ordinati nella elegante geometria, nel raccordo volumetrico e nella misurata decorazione delle facciate e corpi di fabbrica. Le dimensioni degli edifici non oltrepassano la cima degli alberi, tranne la cupola della chiesetta di S. Pietro (S. Felice, n.d.r.), montata sul perfetto tamburo ottagonale, come una specola di osservatorio. Un insieme di forme, alcu ne rustiche, altre levigatissime, avviluppate ancora le une alle altre, cristallizzate nella fase di transizione dalla cultura antica della pietra a quella delle proporzioni e del numero.

In tale ambito è soprattutto la chiesetta di S. Pietro a mostrare intatta la sua qualità architettonica e formale: a metà reliquiario e a metà edificio di culto «romanico», di un romanico tutto particolare, in cui confluiscono esotiche annotazioni orientali, influenze della più vicina Daunia medievale, partiti decorativi di più immediato riscontro nelle tipologie del romanico «maggiore», soprattutto di Terra di Bari. Fra tutto questo concorrere di elementi storici, culturali, ambientali, Balsignano si consuma lentamente, stanco ormai di mostrare tesori che nessuno (o pochi) mostrano di apprezzare e che in effetti impallidiscono e scompaiono, come ad esempio il prezioso ciclo di affreschi con scena di Ascensione di Cristo al cielo e Apostoli sottostanti, per il quale non è stato vergognosamente mai trovato il tempo e il modo di fermarne almeno il degrado, prima che svanisca persino la sua sinopia. Una vera omissione d’atti di ufficio, di mancato soccorso, reati per i quali non è previsto dal codice della conservazione alcuna particolare sanzione. Altri frammenti di affreschi subiscono attualmente la stessa sorte, allontanandosi con le proprie immobili e ieratiche immagini da una realtà mutevole e veloce che, padrona di mille congegni, non è più libera di fermarsi nemmeno per uno sguardo.

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