Anno II N. 5-6 Dicembre 1980
Prof. Raffaele Licinio
Nell’ambito del nostro progetto di recupero del patrimonio artistico modugnese, pubblichiamo un interessante contributo per la valorizzazione del casale di Balsignano del dott. Raffaele Licinio, assistente di Storia Medievale presso l’Università degli Studi di Bari.
I recenti articoli apparsi su «Nuovi Orientamenti» a proposito di due notevoli «emergenze» del territorio modugnese, ponevano una serie di problemi che, opportunamente, non riguardano semplicemente la necessità di descrivere e ricordare, di quelle emergenze, le vicende storiche, artistiche, culturali. Il menhir che sorge sulla statale 98, a stretto ridosso dell’impianto viario, e l’insediamento di Balsignano, situato sulla provinciale che congiunge Modugno a Bitritto, pur espressioni qualitativamente differenti di due società e di due concezioni del mondo profondamente lontane tra loro, sono colti dalla rivista all’interno di un unico contesto, che qui possiamo sintetizzare come «linea dell’attenzione e della riappropriazione». Attenzione alla storia, ma anche attenzione alle valenze folkloriche di queste fonti del passato: ne è valida conferma la favola-leggenda sul «moneke de Medugne» (Nuovi Orientamenti», n. 2, maggio 1980), che più di ogni altro esempio indica la linea di continuità di segno culturale del menhir nei secoli, del suo valore simbolico-cerimoniale e nella sua forte carica di rappresentatività sociale in rapporto all’evolversi della mentalità popolare modugnese.
Sulla necessità di evitare la distruzione di questa pietra capace ancor oggi di «parlare» alla coscienza collettiva, recuperandole un rapporto meno precario e più duraturo con l’ambiente, si è già espresso un primo intervento, che ha avuto il merito di restituire attualità ed urgenza alla questione, ormai giunta al punto di non-ritorno. Si tratta di far presto, indubbiamente: ma l’urgenza è una caratteristica, per così dire, «fisiologica», nell’intera Puglia, e non solo per questo genere di «monumento». Proprio qualche settimana fa è stata lanciata dagli studenti di Pisignano, una frazione del Comune di Vernole, in provincia di Lecce, un’allarmata denuncia dello stato in cui è oggi ridotto il menhir che sorge in località Trisciole, utilizzato (non senza qualche ironia), più come «albero della cuccagna» che come oggetto di riflessione culturale e di indagine storica.
Certo, non c’è bisogno di spingerci sino in Salento: lo scempio e, in diversi casi, la totale distruzione dei dolmen della zona di Bisceglie sono sotto gli occhi dell’opinione pubblica, almeno di quella che gli occhi non intende chiudere. E tuttavia, esistono una attenzione ed un interesse comunque più diffusi verso queste testimonianze preistoriche, che nei confronti dei resti, nel contado, dell’età medievale.
È una constatazione spiegabile agevolmente se guardiamo, ancora una volta, all’esempio modugnese del «monaco», se ci rendiamo consapevoli, in altri termini, del mondo in cui la tradizione popolare si è impadronita, assorbendole e modificandole, di queste presenze di civiltà remote; proprio perché avvertite come lontane ed estranee, esse sono state rielaborate e rivissute secondo una concezione più strettamente legata alla cultura e alla realtà sociale del presente.
Si obietterà che le principali «fonti in pietra» prodotte nel Medioevo, le cattedrali, i palazzi nobiliari, le chiese e i monasteri urbani, non sono state abbandonate all’incuria: nella maggior parte dei casi, esse sono lì, conservate e restaurate, a segnalare il ricordo di tecniche costruttive, simbologie del potere, devozioni culturali, modi di vita. Ed invece, molto c’è ancora da fare, se solo si consideri l’ingente numero di piccole chiese, disseminate nelle nostre campagne, che solo l’opera di vivacissimi gruppi locali (come a Bitonto, per citarne uno soltanto) sta tentando di sottrarre ad uno stato di degrado pauroso, o quando ci si soffermi sul costante deperimento dei nuclei residenziali rurali (Balsignano, per l’appunto). È inutile sottolineare quanto, nella scelta sin qui compiuta nelle operazioni di salvaguardia e riutilizzo, abbia contato e conti il carattere essenzialmente urbano della società e della cultura contemporanei, che tendono a privilegiare, del passato, l’immediatamente visibile (e usabile), dunque quanto appare loro «significativo» nel contenitore- città, e a relegare in secondo piano il prodotto del mondo contadino, avvertito come «arcaico».
Com’era Balsignano, come oggi si presenta, ed in quale progetto dimensionarne la valorizzazione? Nel secolo X, al quale risale la prima testimonianza scritta, «Basilinianum» appare semplicemente un «locus» dotato di un castello che è posto in relazione ad un gruppo etnicamente definito (è detto dalmata): un piccolo nucleo produttivo, in definitiva, soggetto al pari di tanti altri ad un fenomeno di incastellamento tipico di una società che si va militarizzando e feudalizzando, ed abitato essenzialmente da agricoltori. Alla fine del secolo successivo, quando, piccolo momento di una ben più vasta politica filo benedettina dei conquistatori normanni, viene fatto oggetto di donazione all’abbazia aversana di S. Lorenzo, il «locus» si è ormai sviluppato in casale, un villaggio rurale dotato di case, strumenti e locali di lavoro, di campi arati, seminati e utilizzati a vigneti e uliveti. Balsignano produce da questo momento in poi rendite (in natura e in danaro) di non trascurabile entità, tanto da far gola a numerosi piccoli feudatari. Impoverito dalla crisi della metà del Trecento, il villaggio, che aveva raggiunto un numero di abitanti valutabile sulle 300 unità circa, subisce la sorte comune ad altri insediamenti rurali: il deperimento progressivo, causato anche dalla vicinanza di più importanti nuclei urbani (Modugno, in questo caso), e l’abbandono definitivo, poi, in seguito a vicende belliche.
Attualmente, di quello che era stato un villaggio vivo e pulsante di attività, rimangono in piedi le mura, il castello semidiruto, la chiesa interna di S. Maria di Costantinopoli (con alcuni affreschi), e, all’esterno del cortile, la malridotta chiesa di S. Felice (o S. Pietro), i cui affreschi sono ormai del tutto scomparsi, come del resto è accaduto alle case contadine. Ciò che ci è dato ancora vedere di Balsignano (e non è poco), non è, tuttavia, tutto ciò che sarebbe possibile vedere o conoscere. Una oculata campagna di scavi porterebbe certamente alla luce elementi conoscitivi nuovi, tali non solo da agevolare la ricerca storica, ma anche da focalizzare con maggiore sicurezza l’aspetto e la destinazione dell’intero complesso (oggi di proprietà della famiglia Dilillo).
Ma lo sguardo proiettato al passato (com’era Balsignano) o rivolto al futuro (cosa diventerà), non deve mai sorvolare le necessità del presente. E il presente coincide immediatamente con un intervento che sia insieme di salvaguardia, restauro e riutilizzazione: tre fasi da sviluppare contemporaneamente, se non si vuole correre il rischio di proteggere Balsignano dai danni del tempo e del disinteresse, per farne poi un semplice guscio vuoto, o, al contrario, di avviare un dibattito responsabile sull’uso del casale, per poi accorgersi che intanto questo è caduto a pezzi, e che ne restano soltanto fotografie e articoli vari.
Qualunque operazione su questo patrimonio deve sapersi muovere in una dimensione di contemporaneo impegno su piani diversi, respingendo le pur motivabili tentazioni del «prima questo, poi quest’altro». Dunque, va bene confrontarsi su Balsignano e sulle forme del suo utilizzo, purché lo si faccia «mentre» si interviene per impedirne la scomparsa. Auspicabile sarebbe, per esempio, un «mese del recupero» (naturalmente, di tutto il patrimonio culturale modugnese), per orientare l’intera opinione pubblica sulla gravità della situazione; auspicabili sarebbero, anche, «manifestazioni simboliche di occupazione», destinate a catturare l’attenzione degli strumenti di informazione. Intanto, si possono stabilire alcuni punti fermi.
Balsignano non deve diventare un museo. Usciamo da una grande stagione di riflessioni sui musei, in particolare su quelli contadini, che anche in Puglia ha favorito la nascita di numerose esperienze di questo genere. Ma perché il museo contadino non torni ad assumere l’aspetto e la funzione di un cristallizzato «paradiso» atemporale, occorre che esso sia realmente il frutto di un rapporto profondo con il proprio passato, e su un ambito territoriale significativo, non compresso e ristretto all’interno del singolo paese, della singola località.
Una eccessiva frantumazione di questi musei non gioverebbe ad un’immagine globale e complessiva della cultura contadina (espressione già in sé da discutere), e sarebbe senza dubbio indice di un nuovo sussulto di quell’antico provincialismo che troppe iniziative ha sacrificato sull’altare della fierezza «di campanile».
Ancora, Balsignano non deve diventare un luogo di agriturismo, sia perché, storicamente, non è mai stato questo il suo segno distintivo (un casale medievale è ben diverso da una masseria, anche da quelle medievali), sia soprattutto per una questione di fondo. Qualche merito all’agriturismo va assegnato, ma in sostanza esso sembra presentarsi (quando non presenti la campagna come idilliaco « ritorno alla natura ») come la faccia nascosta di una medaglia coniata da una logica ormai diffusissima, la logica della cultura predatrice, ovvero di quella « cultura del profitto » (per adoperare una felice espressione di Luigi Lombardi Satriani) che, « consumando » il fatto folklorico, assegnando strumentalmente al segno del passato un « valore », ne distorce profondamente il significato. O si riesce a restituire a Balsignano il suo segno storicamente formatosi, che è quello di un luogo di produzione rurale collettiva in cui si sono incrociate e fuse, sul piano della vita quotidiana, le esperienze di migliaia di uomini, o cioè si riesce a farlo «funzionare come un casale», e attraverso questo funzionamento lo si qualifica come «museo vivente», oppure, sciaguratamente, lo si riduce a bucolico, superficiale e inattendibile stereotipo della «vita in campagna». Ma chi può credere che, nel desolante panorama degli attuali rapporti tra presente e passato, possa trovare una positiva conclusione un’operazione che punti, per la prima volta in Puglia, a rivitalizzare un casale medievale, almeno su un piano di nuova didattica della storia? Ben altri sono gli esempi di «museo vivente» che la cultura del profitto ci ha consegnato: per tutti, basti pensare al caso del borgo antico di Bari, su cui si sono puntati gli artigli di un «edilturismo» che si proclama puro e disinteressato cultore di storia e folklore.
Non rimane, allora, che un’ultima ipotesi. Presso la «lama» su cui sorge Balsignano passava il ramo interno dell’antica via Traiana. Attraverso quell’asse viario, il casale ha intessuto legami di ogni genere con altre comunità rurali, le cui tracce esistono tuttora. Chi rilegga l’articolo di Adriana Pepe sulla chiesa di S. Felice («Nuovi Orientamenti», n. 4 ottobre 1980), potrà percepire chiaramente i legami e i riferimenti che, in Terra di Bari, disegnano sul territorio un « itinerario storico-artistico » di grande interesse, che si sgrana, per fare solo qualche nome, dal casale di Giano, in agro di Bisceglie, all’abbazia di Cuti presso Valenzano, toccando tra l’altro le campagne bitontine (con le loro chiesette) e quelle di Ceglie del Campo, e passando presso lo stesso «monaco» (al quale, a mio parere, andrebbe evitato ogni spostamento, che ne reciderebbe il significato rispetto allo spazio ambientale originario). Un itinerario, dunque, che valorizzerebbe una serie di testimonianze del passato, e le recupererebbe almeno ad un uso didattico dal respiro più complessivo; un itinerario in cui la singola fonte (restaurata e, naturalmente, custodita) si qualificherebbe non in sé, ma nelle sue relazioni con le precedenti e le successive; un itinerario su cui indirizzare e far crescere flussi di ricerche, gruppi di operatori culturali, soggetti del mondo scolastico (ed anche, ma solo a queste condizioni, flussi turistici); un percorso, infine, scandito tappa per tappa da una particolare caratterizzazione e finalizzazione del singolo insediamento. Un itinerario da approfondire e verificare sollecitando gruppi organizzati, istituzioni e singoli cittadini. Ma presto, senza perdere altro tempo.