Anno II N. 4 Ottobre 1980
Adriana Pepe
Proseguendo la nostra indagine sul patrimonio artistico di Modugno, avviata nell’ultimo numero della rivista con un intervento sul «menhir», pubblichiamo in questo numero uno scritto della dott.ssa Adriana Pepe, assistente di Storia dell’Arte presso Università degli Studi di Bari, autrice di uno studio sulla Chiesa di S. Felice in Balsignano e promotrice di un saggio di scavo, recentemente compiuto, i cui risultati saranno pubblicati prossimamente sulla nostra rivista. L’articolo che qui presentiamo è una sintesi di un intervento della dott.ssa Pepe estratto dagli «Atti del Primo Simposio Internazionale di Arte Armena — 1975». (a cura prof Serafino Corriero).
Nell’ambito delle ricerche relative al folto gruppo di edifici medievali pugliesi con copertura a cupola, già da tempo gli studiosi hanno segnalato l’interessante esempio della piccola chiesa diruta di S. Felice in Balsignano.
L’edificio, ben visibile a distanza per l’alto tamburo ottagonale su cui si imposta la cupola estradossata, si erge a guardia dei cospicui resti del casale fortificato di Balsignano, a pochi chilometri da Bari, in prossimità del percorso di una antica strada che già in età romana collegava Butuntum (Bitonto) a Caclia (Ceglie).
Rimandiamo ad altra occasione lo studio organico dell’intero insediamento, per altro assai interessante per le sue vicende storiche, e relativamente ben conservato nelle sue strutture fondamentali (la cinta di mura che si stende nella campagna con andamento grosso modo quadrangolare; i suggestivi resti del castello, chiusi da un secondo alto recinto e, nella corte interna, la chiesa di S. Maria di Costantinopoli, curioso organismo a crociere ogivali, sul quale si innesta, all’altezza del transetto, un secondo vano coperto da una botte trasversale a sesto ribassato). Solo, in questa sede, ci sembra utile delineare alcuni momenti particolarmente significativi della lunga via del borgo, perché in essi trovino il necessario sfondo storico i molteplici e ancora insoluti problemi architettonici relativi alla chiesa di S. Felice.
La prima notizia del casale di Balsignano ci viene da una pergamena della basilica barese di S. Nicola, nella quale un tale Teofilatto, nel maggio del 962, dividendo con i fratelli dei beni immobili toccatigli in eredità in «loco Basiliniano», assume come punti di riferimento un «castello» ed una «terra qui vocat castellutzo de ipsi dalmatini».
Dunque, almeno dalla seconda metà del X sec. Balsignano, in posizione strategica a difesa di un’antica via e di una fertile «lama», era fortificato; possiamo quindi considerarlo un significativo e forse precoce esempio di quel processo di progressiva modificazione delle strutture agrarie dell’Italia meridionale bizantina, che, secondo recenti studi, fra la fine del X e l’XI sec. trasformò numerosi villaggi rurali in centri fortificati e punteggiò di pyrgoi (torri), di kastra e di kastellia il paesaggio agrario del Catepanato.
Distrutto nel 988 da una scorreria saracena, presto ricostruito, Basilinianum cum omnibus pertinentiis suis fu donato nel 1092 dal duca normanno Ruggero alla lontana abbazia benedettina di S. Lorenzo di Aversa, e dal XIII sec. in poi fu concesso dagli abati aversani ad una lunga serie di signorotti. Le ultime notizie risalgono ai primi decenni del XVI sec., quando il casale dovè essere devastato dalle truppe francesi e spagnole che in quelle campagne si contendevano il possesso dell’Italia meridionale.
Se le vicende del borgo risultano abbastanza ben documentate, stranamente non esiste alcun documento relativo alla fondazione e alle fasi di costruzione della chiesa di S. Felice, sicché il nostro discorso non può che rimanere a livello di ipotesi.
Nonostante sia la chiesa di un borgo rurale, il piccolo edificio i distingue per il misurato equilibrio delle sue proporzioni, per l’accurata fattura della stesura muraria, a conci calcarei perfettamente tagliati e uniti da pochissima malta, per la sobria eleganza dei pochi elementi decorativi.
All’interno, l’unica navata, conclusa da un’abside semicircolare, è coperta da una volta a botte che risulta tagliata, al centro, da una sorta di corto braccio trasversale, contenuto entro il perimetro murario. All’incrocio, su archi longitudinali e trasversali salienti, si imposta l’alto tamburo della cupola, raccordato al quadrato di base da pennacchi sferici. Le pareti risultano articolate da piatte nicchie di alleggerimento delineate da archi a ghiera lunata. La longitudinalità dell’aula viene dunque annullata dal palese riferimento alla croce contratta, e l’ingresso, aperto dal lato meridionale, costituisce un ulteriore suggerimento ad un invaso spaziale organizzato in funzione della cupola centrale. In forma sintetica possiamo ricordare come questa tipologia — la sala a cupola —, che unisce l’organicità della soluzione strutturale ad un costante riferimento alla simbologia della croce, abbia avuto larga e lunga diffusione in tutta l’area del Mediterraneo orientale, nelle provincie periferiche dell’impero bizantino.
Particolarmente significativa, inoltre, ci sembra la presenza di un gran numero di edifici rispondenti a tale tipo lungo la costa dalmata: tutti edifici di dimensioni assai modeste e databili all’ epoca della dinastia croata, fra IX e XI sec.
Che poi si tratti di una tipologia sviluppatasi autonomamente nelle singole zone o diffusasi dall’area asiatica, dove sono attestati gli esempi più antichi, lungo precise correnti di traffici mediterranei, non è facile stabilirlo su basi storicamente sicure, in mancanza di una precisa cronologia di molti di questi edifici.
Anche sull’altra sponda adriatica, in Puglia, il tipo della sala a cupola compare assai di frequente in piccole chiese rurali, correntemente datate fra XI e XII sec. e significativamente addensate entro un’area ristretta, lungo la costa barese (tra Bari e Trani) e nell’immediato entroterra.
Rispetto a S. Felice in Balsignano, tuttavia, queste chiesette hanno tutte un carattere più rustico, che si evidenzia in particolar modo nel paramento murario, per lo più a filari di conci irregolarmente tagliati, e nell’innesto non altrettanto equilibrato dei volumi. La sola S. Maria di Giano, in agro di Bisceglie, mostra, per lo meno all’interno, più strette affinità con la chiesa di Balsignano, mentre la chiesa urbana di S. Margherita a Bisceglie, precisamente datata al 1197, offre l’espressione più colta, raffinatamente signorile, del medesimo tipo.
Per quel che riguarda l’esterno, S. Felice presenta uno stereometrico incastro di volumi emergenti l’uno dall’altro.
Se il tutto dovesse essere coronato da un tetto piramidale, come nelle altre chiese pugliesi a schema longitudinale ricoperte da cupole in asse, è molto dubbio.
Altro elemento insolito, fra le chiese pugliesi di questo periodo, l’abside, che, all’esterno, assume un andamento pentagonale. Non è dato sapere se la parete ovest, evidentemente crollata in seguito a chissà quali eventi e successivamente rabberciata alla meglio, sia mai stata concepita come facciata e se vi sia mai stato aperto un portale. Tuttavia, la straordinaria importanza che assume il lato meridionale, il solo articolato da un elegante motivo ad archetti alternativamente pensili e su paraste, fa supporre che questa sia sempre stata considerata la vera facciata della chiesa.
Ancora una volta è possibile il riferimento ad un altro monumento pugliese, la chiesa di S. Leo nardo a Siponto — situata in uno dei maggiori scali di pellegrini da e per l’Oriente —, al cui fianco settentrionale, solcato da un analogo motivo di archetti e lesene, il fastoso portale conferisce valore di facciata principale.
I confronti invocati più di frequente per la chiesa di Balsignano guardano alla costa dalmata. Nel caso specifico, tuttavia, ci sembra di poter riconoscere nel S. Felice in Balsignano un gusto architettonico più immediatamente ricollegabile a quello dell’Oriente caucasico: basti considerare il chiaro controllo dei volumi squadrati, la tersità compatta della struttura muraria, il gusto per la materia lapidea accuratamente tagliata. Anche alcune soluzioni alquanto insolite per la tradizione pugliese, quali l’abside pentagonale, l’ingresso principale sull’asse nord-sud, l’accentuazione del valore simbolico della cupola per mezzo del concio tagliato a stella, che ne costituisce l’elegante chiave di volta, ci sembrano «citazioni» abbastanza dirette di modi largamente diffusi sia nella tradizione architettonica bizantina che in quella delle aree medio-orientali.
Ora, se è vero che il documento del 962, prima citato, testimonia in « loco Basiliniano » una precoce presenza balcanica (castellutzo de ipsi dalmatini), e se è vero che i rapporti fra il casale di Balsignano e l’opposta sponda adriatica non dovettero mai venir meno, dal momento che ben più tardi, nella seconda metà del XIII sec., un Giacomo da Balsignano è documentato «signore di Valona», è anche vero che il nostro casale si trova a poca distanza da Bari e da Ceglie, sedi di cospicue colonie armene documentate almeno dal X sec.
Il problema degli apporti culturali potrebbe essere, almeno in parte, chiarito da una precisa datazione del monumento, se il silenzio delle fonti e la malaugurata perdita degli affreschi che decoravano l’interno (ne restano, qua e là, frammenti illeggibili) non ci obbligasse, allo stato attuale degli studi, ad una ipotesi di datazione assai larga e cauta, basata solo su confronti formali.
La chiesa benedettina di Ognissanti di Cuti, presso Valenzano, situata lungo il percorso della medesima antica via e databile con buona certezza agli ultimi decenni dell’XI sec., pur obbedendo al tipo delle chiese longitudinali ricoperte con tre cupole in asse, suggerisce un plausibile paragone per l’analoga concezione dei volumi, stereometricamente compatti, e per la tersa regolarità dei paramenti murari, oltre che per il motivo dentato che orna, all’interno, il riferimento alla chiesa di S. Maria di Giano presso Bisceglie, non più tarda della fine dell’XI sec.
Tuttavia, che la nostra chiesa sia posteriore a quelle di Valenzano e del casale di Giano, sembrerebbe dimostrarlo il fatto che nell’atto di dona zione ai benedettini di Aversa, in cui pur si fornisce l’elenco particolareggiato di tutte le proprietà agricole del casale di «Basiliniano», non compare alcun cenno alla chiesa di S. Felice; sicché possiamo forse assumere la fine dell’XI sec. come termine post quem per la sua costruzione e il 1197, anno riferibile alla già citata chiesa di S. Margherita di Bisceglie, come termine ante quem. Si tratta certo di un lasso di tempo molto ampio, ma gli scarsi elementi in nostro possesso non ci consentono di avanzare un’ipotesi di datazione più precisa: forse, assumendo ancora una volta come ter mine di paragone la chiesa di S. Leonardo a Siponto, che risale, nelle strutture originarie, circa ai primi decenni del XII sec., possiamo trovare un ulteriore appiglio a favore di una collocazione cronologica della nostra chiesa entro la metà del secolo.
Difficile formulare ipotesi, infine, circa il momento in cui venne addossato al lato settentrionale della chiesa un secondo corpo rustico costituito da un’unica navatella absidata, traslata in avanti rispetto al corpo principale e suddivisa in due campate coperte da cupolette leggermente ellittiche; altrettanto difficile chiarire la funzione di questo corpo aggiunto, che, per il Venditti, sarebbe stato addossato molto più tardi, per aumentare la capienza della chiesa primitiva.
Tuttavia, alcuni particolari costruttivi [l’accurata fattura degli archi che assicurano il passaggio fra i due ambienti e dei pilastri su cui si impostano le tracce di affresco estese su tutta la superficie interna dell’ultimo pilastro a nord-ovest; la ghiera di un arco, ben visibile, al l’esterno, sulla parete settentrionale, cui malamente si appoggia l’informe massa della navatella aggiunta], fanno supporre, con qualche cautela, che l’attuale «corpo rustico» non sia che il tardo rifacimento di un secondo ambiente sin dall’origine in comunicazione con il corpo principale. Di più non possiamo azzardare: solo un saggio di scavo a livello delle fondazioni, ci dirà qualcosa di preciso in proposito.
Per concludere, ci troviamo di fronte ad un edificio costruito quasi certamente al tempo dei benedettini aversani, ma secondo una concezione spaziale e volumetrica tributaria più dell’oriente che dell’occidente, caso non raro in un contesto culturale come quello pugliese, in cui si fondono e si elaborano originalmente elementi occidentali, bizantini e orientali di varia provenienza, sulla base di complesse e ben note vicende storiche.